Radio-Radicale
ANSA / ETTORE FERRARI
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Radicali, ma non con la loro radio

Radio Radicale lotta per avere il finanziamento pubblico, dopo aver fatto della lotta al finanziamento pubblico la sua grande battaglia

Qualche settimana fa, un lettore di Panorama mi ha posto il seguente quesito: mi può spiegare perché i Radicali sono contro il finanziamento pubblico dei partiti, tanto da avere fatto una storica e meritoria battaglia che si concluse con un referendum che lo abrogò, e poi sono favorevoli al finanziamento pubblico della radio di un partito, ossia della loro? Come faccio ogni volta che non conosco la materia, prima di rispondere ho voluto documentarmi e quello che vi sto per raccontare è il risultato ottenuto dalla consultazione di documenti e atti parlamentari.

Radio Radicale nasce fra il 1975 e il 1976, cioè dopo la sentenza che tolse alla Rai il monopolio imposto in epoca fascista. In principio fu un’emittente amatoriale, nata per iniziativa di alcuni militanti radicali, poi divenne la radio del movimento guidato da Marco Pannella, il che la trasformò in un vero e proprio braccio operativo del partito, con dirette dalle aule parlamentari e dai tribunali, ma anche con la storica rassegna stampa condotta da Massimo Bordin e la puntuale intervista domenicale al leader del movimento. Il vero cambiamento però lo si ha nei primi anni Novanta, quando arriva la legge Mammì, ossia le nuove norme su radio e tv.

Ed è lì che la storica battaglia contro il finanziamento pubblico prende un’altra strada. I Radicali continuano a essere contrari a dare soldi dei contribuenti ai partiti, ma stranamente si dimostrano favorevoli a sganciarli per l’emittente di un partito, cioè la loro. Tutto deriva da un bando del governo, che i maligni dicono sia stato cucito su misura proprio per Radio radicale (requisiti: niente musica o quasi e zero pubblicità), che all’epoca navigava in brutte acque e rischiava di chiudere. Sta di fatto che alla gara per diffondere in diretta le udienze parlamentari, decisa quando a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi, partecipa la sola Radio radicale, che dunque diventa concessionaria di un servizio pubblico e quindi ha diritto ai relativi quattrini.

Il bando, fatto per decreto, non sarà mai convertito in legge, ma sarà sempre rinnovato per ben 17 volte, con una specie di regime transitorio che è durato 25 anni. In un quarto di secolo Radio radicale è costata agli italiani la bellezza di oltre 200 milioni di euro, anzi, secondo il dipartimento dell’editoria di Palazzo Chigi addirittura 215 per la sola convezione, cui si sommano i contributi per l’editoria.
A queste cifre i Radicali ribattono che la loro radio ha svolto un servizio pubblico, diffondendo le sedute del Parlamento e le udienze dei principali processi, cosa che nessun’altra emittente ha fatto. Vero. Però i sostenitori di Radio radicale dimenticano un piccolo particolare, ossia che dopo il bando del 1994, quello confezionato ad hoc, con requisiti che consentirono alla sola radio di Marco Pannella di partecipare, seguì una legge del 1998 che proibì alla Rai e a Gr parlamento di ampliare il servizio dedicato ai lavori parlamentari, lasciando campo alla radio di Pannella. In pratica, alla tv pubblica fu vietato di fare un servizio pubblico e dopo di che si decise di appaltare, dietro pagamento, il servizio pubblico a un privato, come nei fatti è Radio radicale.

Non è finita. Fino alla fine degli anni Novanta l’azionista unico dell’emittente era l’Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella, poi l’assetto proprietario è cambiato, con l’ingresso di un socio finanziario che per 25 miliardi di lire acquistò il 25 per cento. I soldi ovviamente finirono alla Lista Pannella. Dunque, per riepilogare: il Partito radicale ha combattuto il finanziamento pubblico ai partiti fino a ottenerne la definitiva messa al bando, poi, in seguito, ha ottenuto il finanziamento pubblico della radio del partito e un bel giorno ha venduto il 25 per cento della radio finanziata con soldi pubblici e ha incassato 25 miliardi di lire destinati a finanziare il partito. Tutto chiaro? C’è altro da dire? No, se non che contro la chiusura di Radio radicale (non si tratta di una chiusura, ma solo della fine del finanziamento pubblico, ma questo è un dettaglio) si battono artisti, politici e intellettuali. I quali gli appelli per una semplice fabbrica di certo si guardano bene dal farli.
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Maurizio Belpietro