Giulio-Regeni
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Quell'infinito striscione per Giulio Regeni

Sono passati tre anni dall'uccisione del giovane ma la parata di ritratti ed affissioni rischiano di essere una celebrazione vuota. E di parte

In tutta Italia, ovunque governi la sinistra o anche i grillini, c’è una sacra icona che non può essere rimossa neanche dopo anni e anni: lo striscione su Giulio Regeni, il ragazzo che scriveva sul Manifesto, barbaramente assassinato in Egitto. Lo striscione di Regeni pende dai palazzi di città, campeggia su torri e balconi, a volte si accompagna alla sua immagine. E guai a chi osa rimuoverlo, come fece il governatore Massimiliano Fedriga a Trieste, sei considerato quasi un complice dei sicari, comunque un blasfemo, un profanatore di reliquie. La sua tragedia, è inutile dirlo, grida giustizia: Regeni fu torturato e ucciso perché ritenuto una spia o un collaboratore degli oppositori al regime egiziano, i suoi sicari e mandanti sono ancora impuniti e non si sono appurate eventuali responsabilità del college inglese che lo mandò allo sbaraglio... Ma sono passati tre anni e quegli striscioni, ormai alterati dal sole e dalle intemperie, risultano vani reperti di una mobilitazione politica a perenne memoria. Sappiamo che alla causa di Regeni si è votato con abnegazione e fervore mistico il presidente della Camera Roberto Fico, diventando una specie di ministro del culto del ragazzo ucciso, facendone la sua missione suprema e la sua ragione morale di vita politica.

Ora noi sappiamo che di italiani sequestrati e uccisi, spesso senza un perché, ce ne sono stati tanti in questi anni, ma sono stati dimenticati anche perché nessuno di loro risultava di sinistra o collaborava a un quotidiano di sinistra. Ci sono stati persino religiosi trucidati a cui non è stata mai resa giustizia, o altri che risultano ancora in mano ai rapitori senza alcuna mobilitazione politica. Il caso di padre Paolo Dall’Oglio, per esempio, è ancora misteriosamente aperto e, magari, c’è ancora la possibilità pur tenue che si faccia qualcosa per liberarlo dagli assassini di Daesh. Ma non c’è mobilitazione per lui. Eppure lui era un missionario, agiva davvero a fin di bene. E tante vittime inermi, ragazze e bambini, di cui non si è ancora trovato o punito il colpevole, ci sono state in Italia, ma non c’è nessuno striscione in loro favore.

Prima di Regeni era stata la destra a tappezzare di striscioni alcuni luoghi pubblici per sostenere i due marò, La Torre e Girone, imprigionati in India con l’accusa di omicidio. Iniziativa magari pur essa discutibile ma in quel caso si trattava di due persone ancora vive, e dunque la campagna per sensibilizzare governi e opinione pubblica aveva un senso; e forse qualche effetto lo ebbe, perché alla fine furono liberati.

In questo caso, invece, lo striscione è una specie di ex-voto, di edicola votiva, che serve - diciamo la verità - per appagare l’identità collettiva e politica di chi la espone e in suo nome si mobilita. E per farlo diventare un martire contro «ogni fascismo». Al limite, potrebbe avere qualche efficacia la proposta dei genitori di Giulio, di ritirare l’ambasciatore italiano dall’Egitto fino a che non si fa chiara luce sul delitto e non si puniscono i colpevoli.

Ma l’uso politico e simbolico che si fa di Regeni e della sua icona serve a piantare la loro bandierina sulle istituzioni e a nutrire l’immaginario collettivo tramite qualche Vittima del Sistema - come è stato il caso di Stefano Cucchi, o in passato di Carlo Giuliani, per non dire del Vittimario imbastito sui migranti. Così viene alimentata una specie di religione politica ed emozionale, coi suoi riti, i suoi santini, le sue stazioni votive, i suoi martiri, i suoi racconti sacri, la sua liturgia civile.

Qui vorrei sottolineare un paradosso della nostra epoca laicista e irreligiosa: è trattato con aria d’ironia e di sufficienza chi si dedica alla preghiera o al rosario, si sprecano risatine se fai dire messa ai morti, se preghi per i defunti, o se fai un voto o un fioretto. Ma sono forse più reali e razionali, e più efficaci, le fiaccolate per liberare un ostaggio, le firme contro la violenza, le marce per la pace, i sit-in contro le stragi, gli striscioni in memoria? Credete che servano a qualcosa, fermino o dissuadano i criminali, sensibilizzino le autorità, producano risultati? Nessuna marcia della pace ha mai fermato una guerra. E non ha mai indebolito un Paese belligerante (se non il proprio).

Tra una novena alla Madonna e una veglia per Regeni, sul piano reale e razionale, c’è qualche differenza? Uno striscione per punire gli assassini ha più possibilità di avere successo di un viaggio della speranza a Lourdes? Servono davvero a qualcosa i cortei, le veglie e gli striscioni, o sono puri atti liturgici che rispondono a una fede e ai suoi riti? Sono solo simboli di appartenenza e cerimonie votive.

Qui viaggiamo tra due paradossi: è assurdo che il caso Regeni sia l’unico negli ultimi anni a suscitare mobilitazione in tutto il territorio nazionale e a campeggiare negli edifici pubblici; ma sarebbe pure assurdo se per ogni delitto rimasto impunito si esponesse uno striscione come monito e memoria. Saremmo sommersi da striscioni, ci sarebbe la guerra tra tante conventicole: quelli che ricordano la ragazza stuprata e uccisa dai nigeriani, quelli che ricordano il missionario italiano sequestrato e ucciso dai fanatici musulmani, quelli che ricordano le vittime di femminicidio o di infanticidio, o le vittime di drogati recidivi, stupratori seriali o migranti criminali, non sbattuti in carcere o spediti a casa loro ma rimessi in libertà e dunque messi in condizione di reiterare i loro crimini. Quante mobilitazioni dovremmo fare per tutti questi casi, quanti striscioni, gigantografie dovrebbero tappezzare i nostri palazzi civici? Via, siamo seri, non striscioni ma opere di bene.

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Marcello Veneziani