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Quanto costa ricostruire Gaza

Oltre le aspettative la quota raccolta grazie ai donatori internazionali: 5,4 miliardi di dollari. Il Paese più generoso è il Qatar

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Fondi pari a 5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione delle città palestinesi colpite dal recente conflitto tra Hamas e l’esercito israeliano. Oltrepassa le aspettative iniziali la quota raccolta dai donatori internazionali durante la conferenza organizzata al Cairo domenica 12 ottobre dai governi di Egitto e Norvegia. La cifra richiesta dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per far fronte alle priorità della ricostruzione, che nel complesso ha provocato più di 2mila vittime e 100mila sfollati, era infatti di 4 miliardi di dollari. Da solo il Qatar ha offerto un miliardo di dollari, Emirati Arabi e Turchia hanno fatto una donazione di 200 milioni di dollari ciascuno, gli USA hanno annunciato 212 milioni di aiuti mentre l’UE garantirà 450 milioni di euro. Il contributo dell’Italia, ha specificato il ministro degli Esteri Federica Mogherini, ammonta a 18 milioni di euro, contro i 30 milioni offerti dalla Francia e i 25 del Regno Unito.

 Assente alla conferenza internazionale, il governo israeliano ha comunicato che ogni opera di ricostruzione dovrà avvenire “con il consenso di Tel Aviv e con la cooperazione delle autorità israeliane”.

La battaglia diplomatica con cui Abbas deve prima fare i conti riguarda però il raggiungimento di almeno 9 firme sicure a sostegno della risoluzione all’interno del Consiglio di Sicurezza dell'Onu

Riunione del governo di unità nazionale palestinese
Pochi giorni prima dello svolgimento della conferenza internazionale si è riunito per la prima volta, a tre mesi dalla sua formazione, il governo di unità nazionale nato dallo storico accordo dello scorso aprile tra le due fazioni palestinesi, Fatah (la formazione più moderata che controlla la Cisgiordania) e Hamas (il movimento più radicale che invece controlla la Striscia di Gaza). La composizione dell’esecutivo era stata stabilita a giugno poco prima dell’inizio del conflitto militare, ma da allora il governo è stato inoperativo anche a causa del blocco imposto da Israele sui viaggi verso la Cisgiordania.

 Il primo ministro palestinese, Rami Hamdallah, che ha diretto l’incontro tenutosi a Gaza nella residenza presidenziale il 9 ottobre, ha dichiarato che la situazione nella Striscia richiede “un governo di unità funzionante ed efficace, che superi le annose divisioni per garantire una fase di normalizzazione ai palestinesi”. Dal canto suo, il ministro degli Esteri palestinese, Riyad al-Malki, presente alla conferenza di domenica al Cairo, ha garantito che gli aiuti raccolti dai donatori internazionali serviranno esclusivamente per la ricostruzione e che non finiranno nelle mani dei militanti di Gaza.

 La strategia di Abbas
Mentre i negoziati con Israele attraversano una fase di stallo pressoché totale, Mahmud Abbas, presidente dell’ANP, tenta il tutto per tutto dirottando la questione verso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Già nel 2012 la Palestina veniva riconosciuta da 138 Paesi dell’Assemblea Generale dell’ONU, ottenendo così lo status di Stato osservatore non membro. L’obiettivo successivo che adesso Abbas sta tentando di perseguire è l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di una risoluzione che ponga fine all’occupazione israeliana e sancisca l’indipendenza dello Stato palestinese, racchiudendo tutti gli elementi sui quali gli Stati Uniti hanno finora concordato in questi anni di negoziati in modo da scongiurare la possibilità, molto consistente, del veto americano.

 Così facendo Abbas porterebbe Israele a trovarsi coinvolto in un conflitto contro uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, con tutte le conseguenze del caso. Nel caso in cui il Consiglio non dia seguito alla risoluzione, la mossa di riserva dell’ANP sarebbe quella di aderire allo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale per avviare procedure penali contro lo Stato di Israele.

 La battaglia diplomatica con cui Abbas deve prima fare i conti riguarda però il raggiungimento di almeno 9 firme sicure a sostegno della risoluzione all’interno del Consiglio di Sicurezza (inclusi i cinque Stati membri con diritto di veto, vale a dire Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia), il che farebbe accedere la richiesta palestinese alla seduta plenaria dell’Organizzazione, dove a quel punto i palestinesi non avrebbero problemi ad assicurarsi i due terzi della maggioranza grazie alla presenza di numerosi Stati arabi e di altri non allineati.  

 Secondo fonti diplomatiche, attualmente Abbas disporrebbe già di diverse adesioni in sede di Consiglio. Il 3 ottobre anche la Svezia (Paese che non fa attualmente parte dei membri non permanenti del Consiglio) aveva annunciato il riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente. La Francia invece vacilla, ma potrebbe rivelarsi il sostenitore chiave di cui Abbas necessita per spostare l’ago della bilancia verso la sua parte. Il sostegno ormai certo alla causa palestinese è invece arrivato ieri, lunedì 13 ottobre, dalla Gran Bretagna. La Camera dei Comuni ha infatti approvato una mozione che chiede il riconoscimento della Palestina come Stato, con 274 voti a favore e 12 contrari. Nel documento si chiede al governo britannico di “riconoscere lo Stato palestinese insieme a quello di Israele” al fine di “assicurare una soluzione negoziata dei due Stati”. La mozione non è però vincolante e lo stesso sottosegretario per il Medio Oriente, Tobias Ellwood, ha dichiarato che uno Stato palestinese potrebbe essere riconosciuto solo al momento opportuno.

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Gaza dopo la guerra

ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

27 agosto 2014. Una famiglia palestinese fa ritorno a casa - nel quartiere di Shejaiya, a Gaza - con i suoi possedimenti, su un carretto trainato da un cavallo, nel primo giorno di "cessate il fuoco a lungo termine" concordato da Israele e Hamas, con l'intermediazione egiziana, dopo 50 giorni di violenze.

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