E io vi dico che questa sentenza è inutile
Una condanna che incastra l’Arcinemico, che si voleva mettere fuorilegge, che non cambia assolutamente nulla nelle teste di avversari e sostenitori
Non hanno osato ratificare l’interdizione di 5 anni. Ma nella specifica viltà di questa sentenza c’è la condanna ratificata per frode fiscale, una roba da parrucconi accaniti: se uno non ha il coraggio, non se lo può dare. Tuttavia quel pronunciamento solenne non ha alcun valore pubblico, politico e storico.
L’Italia saprà superarlo con grazia e astuzia. Ecco perché. Il Cretinetti giudiziario, categoria che abbonda nella disgraziata professione mediatica, ragiona così: con la sentenza definitiva della Cassazione si stabilisce che Silvio Berlusconi è un reo, e si volta pagina obliterandone la figura pubblica. Il «common man», che usa il senso comune in modo razionale, ha un’altra idea: la Cassazione, che non si sottrae al destino costruito in vent’anni di accanimento, conferma il pregiudizio persecutorio ai danni del grande outsider. E Berlusconi non è un reo, se non tecnicamente: civilmente resta un leader che può continuare a godere del consenso e del suo diritto di parola e di azione, oltre ogni conseguenza legale stabilita dalla casta giudiziaria.
Le cose stanno proprio così. Mezza Italia, con riserve crescenti fra i molti perplessi anche a sinistra, ha la sentenza già incorporata nel dna di vent’anni di battaglie contro l’Arcinemico. La Cassazione, quale che sia l’ipocrisia di chi considera il suo verdetto un timbro sulla sua idea antagonistica e intende valorizzarlo come segno finale, non aggiunge niente.
La sentenza fu pronunciata già nel lontano 1994, quando Berlusconi entrò in politica. Era portatore, secondo loro, di un illegale conflitto di interessi, era ineleggibile e solo fu salvato dai cavilli, era un imprenditore del giro degli attori semilegali della vecchia Repubblica, un uomo cresciuto con la sua squadra e la sua impresa all’ombra di Bettino Craxi e di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani, uno che poi fu addirittura sotto pressione, da parte di magistrati che avevano la fregola della carriera politica, come amico dei mafiosi e degli stragisti. Grottesco, ma è così.
E questo è il particolare storico, decisivo, che invalida il dispositivo cassazionista. La sentenza non conta perché arriva con un ritardo di vent’anni e non dice nulla di nuovo su un Arcinemico che si voleva mettere fuorilegge, ora «incastrato» con quella strana e residuale e controversa storia di evasione fiscale, gestione dei diritti, teoremi sulla responsabilità personale. Politicamente, per questa stessa Italia che festeggia, è una sentenza nulla, priva di significato.
Per gli altri, e sono molti milioni ancora oggi dopo prove tremende di salto nel cerchio di fuoco, la pronuncia è solo l’ultimo atto di una vecchia guerra psicologica, politica e giudiziaria che ha come oggetto di accanimento un leader rilevante, personalmente carismatico, di battaglie e di epopee nelle quali un pezzo di Italia non ha mai smesso di riconoscersi. Berlusconi, in questo contesto, non è un reo, nessuna sentenza può metterlo fuori legge, è un perseguitato, un politico outsider inviso, fin dalla sua entrata in politica dopo la caduta dei partiti, a una casta che amministra la giustizia penale come una palestra di cattiva e faziosa politica. Anche per questi italiani la sentenza ha valore nullo.
Ora, se Berlusconi in seguito alla sentenza si comportasse come una comparsa di un film caimanesco di Nanni Moretti, e convocasse un’improbabile rivoluzione che sconvolge tutto e mette a fuoco le istituzioni, ecco che i suoi arcinemici potrebbero gridare al golpe e allo scontro frontale, brandendo la Cassazione come un’arma letale. Se fuggisse in esilio, darebbe un'enorme soddisfazione ai pazzi e ai furbi che lo opprimono con la loro insensatezza da vent'anni.
Ma Berlusconi è tutto tranne che un ingenuo. Ha già detto che reagirà con dolore, con rabbia, ma anche con stile, con forza, con sapienza politica. Ha detto che cercherà di salvaguardare l’equilibrio realisticamente messo in piedi da lui stesso e dal presidente della Repubblica, con un governo e una maggioranza che si reggono per curare come possibile la crisi del Paese e i problemi drammatici dei suoi abitanti, dei suoi imprenditori, dei suoi lavoratori e dei suoi giovani. Ha detto: «Hic manebimus optime». E non ha alcuna intenzione di mettersi fuorilegge da solo.
Anche per lui, paradossalmente, la sentenza ha valore pressoché nullo. Queste cose le sanno tutti. Ma solo in pochi si sentono in diritto di dirle pubblicamente. Tutti sanno che «essere Berlusconi non è un reato», che il Cav ha risorse fisiche, umane, politiche e materiali per superare qualunque crisi senza mandare a monte la partita, autolesionisticamente, continuando a giocare in qualunque condizione per lo scorno e la disdetta della consorteria dell’inimicizia che gli è stata costruita attorno dai soliti noti.
Il carrozzone mediatico gira da solo su se stesso, con il generoso contributo dei corrispondenti della stampa estera più stupida e ignorante del mondo, ma la sentenza è universalmente noto che non conta, almeno come ratifica di una legalità da ripristinare con una sanzione. Perché non si sta giudicando altri che un leader politico democratico, non un truffaldo da quattro soldi, non un evasore ma un fecondo contribuente del fisco, non un privato ma un privato fattosi uomo pubblico e uomo di stato nonostante e contro due decenni di persecuzione giudiziaria e civile ai suoi danni. Uno che per tre volte ha vinto le elezioni politiche, ed è stato a un passo dal vincerle per la quarta volta, superando le tremende barriere che l’assedio giudiziario aveva elevato contro di lui.
La protesta eromperà nelle forme dovute, anche di basilare rabbia e furore, mentre i festeggiamenti manettari confermano il suo carattere «politico». Tuttavia una cosa è accertata comunque: non è per via giudiziaria, e con quegli argomenti, che si può spegnere un fenomeno civile come quello rappresentato, con tutti gli errori del caso e le debolezze, dal lungo e infrangibile ciclo del berlusconismo.
In un paese normale, con mezzi neutri, da tutti rispettati, una sentenza come questa farebbe storia. In un grande Paese anormale come l’Italia, il tentativo di usare una sentenza per ammazzare un leader si cassa da sé.