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ANSA/CLAUDIO PERI - MASSIMO PERCOSSI
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Populismo formato Greta Thunberg

In alcuni paesi il "furor di popolo" si è trasformato in sovranismo. A certi movimenti manca però la fase della maturità, come insegna la moda ecologica

Nel frangente delle elezioni europee e dei mutati assetti internazionali ci siamo persi il populismo. Era la chiave di lettura dominante fino a qualche mese fa, poi diventò sottofondo e sottinteso, adesso è scomparso dai radar del nostro tempo e del nostro lessico. Difficile ora localizzarlo e non solo perché è una massa gelatinosa e volubile. Che fine ha fatto il populismo? Di mezzo c’è stato il tracollo dei Cinquestelle, il movimento populista allo stato puro, nel senso di primitivo, grezzo, puerile. Poi c’è stata la sostituzione mediatico-ideologica del populismo con categorie venute dal passato in un delirio crescente che va dal nazionalismo al fascismo e dal nazismo al razzismo. Ma non basta.

Ci sono due ragioni più forti che hanno decretato la trasformazione radicale del populismo. La prima, vistosa, sancita a furor di popolo, è il passaggio dalla fase fluida e puerile a una più matura, più definita, più adeguata alle responsabilità di governo. Il populismo è stato sostituito dal sovranismo, in Italia e nel mondo, che ne eredita il magma però si spinge oltre, lo delimita in precisi concetti e in spazi politici ben marcati: la sovranità dei popoli, della politica e degli Stati nazionali, il senso della realtà e dei confini, la protezione economica dei popoli e dei prodotti «nostrani», il richiamo alle tradizioni civili e religiose, la decisione sovrana, la sicurezza. Se si fa riferimento alle esperienze politiche più significative, l’arco che va da Trump a Orbán e i Paesi di Visegrád, passando per l’Italia di Salvini, il boom di Farage e di Marine Le Pen, fino all’India di Modi e al Brasile di Bolsonaro, il termine populismo non basta più; è insufficiente a designare il fenomeno, perché collegandosi con la tutela del primato nazionale, la politica decisionista e il richiamo civile-religioso, il populismo è rimasto un humus di base ma è diventato altra cosa.

C’è poi un’altra importante trasformazione del populismo che la fabbrica delle opinioni non vuol vedere pur essendo lampante: c’è un populismo parallelo ma di segno contrario rispetto a quello sfociato nel sovranismo. È il populismo pro-migranti, che si fonda sull’ideologia dell’accoglienza, sul primato degli ultimi, degli esclusi, sul pauperismo. Un populismo ecumenico, umanitario, che si potrebbe forse definire papulismo, visto il suo principale promoter, Papa Bergoglio. Non è solo la sua estrazione argentina, le sue passate simpatie peroniste, la sua tendenza anticapitalistica in favore dei diseredati e non è solo il suo leaderismo autoritario, e il suo istrionismo mediatico, tipico dei leader populisti. Bergoglio è oggi il principale esponente di un populismo ecumenico, terzomondista, in cui gli avversari sono le élite, le gerarchie, i potenti e i potentati, i benestanti egoisti di tutto il mondo, quasi come per i movimenti populisti ritenuti di destra. L’ideologia dell’accoglienza diventa l’approdo della sinistra spaesata e spiazzata, che cerca nel bergoglismo il socialismo perduto (e il cattocomunismo).

Il messaggio sociale del Papa sorge dentro una prospettiva escatologica, religiosa, seppure con una forte valenza sociale ed economica. Quella religione che vede Gesù Cristo come il primo rivoluzionario e il primo martire della repressione, il precursore di Guevara e dei movimenti di liberazione, o la sintesi tra El Che e Madre Teresa di Calcutta, per citare Jovanotti. Il Cristo come l’antefatto di San Francesco, dove il populismo sposa la povertà e si colora di ambientalismo.

E qui tocchiamo un altro versante più laico e «terrestre» del populismo, quello ecologista, in Italia passato inosservato alle ultime elezioni europee ma cresciuto in tutta Europa e nel mondo, sull’onda della figura-simbolo di Greta Thunberg. Le sue trecce sono diventate il simbolo del populismo verde, giovanile e anticonsumista contro lo sfruttamento del pianeta ai fini del profitto. E per guida non un leader esperto ma «una di noi», una ragazza priva di sapere ed esperienza.

Il populismo è tornato a essere quel fenomeno sotterraneo e trasversale che tocca gli eredi della destra e gli eredi della sinistra, passando per gli eredi del cristianesimo e delle religioni naturalistiche; cede il passo ai sovranismi nazionali e alle ideologie dell’accoglienza, ai protezionismi economico-nazionali e alla protezione dell’ecosistema in pericolo. È l’ambiguità, anzi la polivalenza del populismo.

Dico «è tornato a essere» perché già negli anni Settanta apparve un populismo verde sull’onda della crisi energetica e poi un populismo cattolico sotto l’ala possente di Papa Wojtyila, gran comunicatore, anche se d’ispirazione assai diversa dal Papa argentino.

Questo percorso variegato e plurale del populismo insegna una cosa: il populismo è un fenomeno indeterminato e polivalente, che nasce da un incrocio tra antipolitica e iperpolitica, democrazia plebiscitaria e autocrazia, autogoverno dei popoli e leadership carismatica. Ma per assumere fattezze reali, e non restare solo allo stato gassoso di umore, di protesta e di mentalità, deve necessariamente abbinarsi a un altro elemento che lo definisce e lo solidifica: la sovranità, il richiamo nazionale e patriottico, o umanitario e religioso, ambientalista e planetario. Il populismo nasce da democrazie malate e sistemi economici ingiusti, ma non è il frutto della malattia, semmai è la reazione allergica e vitale a essa. Ma è reazione elementare, protestataria, fino a che non diventa adulto, e passa dall’asilo infantile al livello superiore. E allora smette di essere populismo.   

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Marcello Veneziani