riforma Cartabia
Il ministro Marta Cartabia (Ansa).
Politica

«Né con la Cartabia, né con questa Anm»

Quarantadue magistrati esprimono «dubbi sulla fiducia preconcetta nelle capacità taumaturgiche» della ministra della Giustizia di «riformare con la bacchetta magica il processo civile e quello penale». E criticano l'Associazione nazionale magistrati.

«Il sistema correntizio della magistratura, dopo appena tre anni dallo scandalo-Palamara, non è minimamente scalfito e lo dimostra il clima di insoddisfazione che si avverte tra molti magistrati italiani».Non ha dubbi Paolo Itri, storico pubblico ministero della Procura di Napoli, tra i firmatari di un documento che critica fortemente la posizione dell’Anm. Un vero e proprio cahier de doléances «sui dubbi in materia di riforma della prescrizione e sull’introduzione dell’improcedibilità dell’azione penale nei gradi di impugnazione». Napoletano, classe 1965, di origini cilentane, Itri è entrato in magistratura nel 1991. Tra il giugno 2011 e il novembre 2015 è stato ispettore generale del Ministero della giustizia e nel 2017 ha svolto le funzioni di procuratore della Repubblica a Vallo della Lucania. Pm alla Procura di Nola, nel 2008 ottenne per la prima volta in un’aula del Tribunale di Napoli la condanna all’ergastolo per Totò Riina, riconosciuto come mandante di cinque omicidi avvenuti nella tenuta dei Nuvoletta, a Marano: si è occupato dei rapporti tra mafia siciliana e camorra napoletana e di diverse storiche vicende processuali, tra cui l’indagine bis sull’attentato del Rapido 904, una strage che sembra anticipare la successiva strategia terroristica di Cosa Nostra. Panorama.it ha raggiunto il magistrato per chiedere conto dello stato di salute del sistema giudiziario italiano, «da troppo tempo affetto da corporativismo di maniera».

Dottor Itri, lei ha firmato un duro documento sullo stato di salute della magistratura italiana.

«L’ho fatto insieme a quarantuno onestissimi e coraggiosissimi colleghi. Personalmente ho riflettuto su 30 anni di vita in toga, spesi nella battaglia dello Stato contro la camorra e le collusioni tra colletti bianchi e criminalità organizzata. Il Palazzo di Giustizia napoletano, il più grande d’Italia e probabilmente del mondo, è l’immagine che mi accompagna e mi richiama alla mente l’intera macchina giudiziaria del nostro Paese: ancor oggi ho l’impressione quella di trovarmi di fronte al monolite di “2001. Odissea nello spazio”, la celebre pellicola diretta nel 1968 da quel genio visionario di Stanley Kubrick».

Una firma che vale una carriera.

«E una vita. Quando nel 2019 pubblicai “Il Monolite. Storie di camorra di un giudice antimafia” (Piemme), l’immagine iconica del Tribunale partenopeo ha fatto scoccare in me più di una riflessione… Era una sorta di romanzo storico-autobiografico che ricostruiva decenni di affari criminali, omicidi, tradimenti e arresti, dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo alla Nuova Famiglia di Antonio Bardellino fino ai temuti casalesi «Sandokan» Schiavone e Bidognetti».

Dottor Itri, ci perdoni, ma chiamare in causa Kubrick e la sua celebre opera sa tanto di gesto rivoluzionario…

«Il misterioso monolite di Kubrick rappresenta la metafora del Potere, quello con la “P” maiuscola. E chi è addentro a queste cose sa che la lotta per il Potere si svolge dentro, ma anche fuori del Palazzo, dove valgono la legge del più forte e dell’homo homini lupus. E la giustizia italiana, con le sue regole spesso incomprensibili ai più, rappresenta per il comune cittadino una sorta di caos labirintico, in cui ogni giorno si scrivono nuove pagine della tragedia e della commedia umana».

Il tribunale partenopeo come trasposizione iconografica, allora.

«In particolare la Procura di Napoli è un avamposto della condizione in cui versa la giustizia italiana. Un luogo dove ancora oggi, dopo tanti anni, insieme agli altri valorosi colleghi della Dda, conduciamo da lungo tempo una tormentata battaglia, in nome e per conto dello Stato, contro la camorra e la corruzione».

Impaurito?

«Non nascondo di avere attraversato dei brutti momenti, d’altra parte l’uomo tende a rimuovere l’idea della morte e a considerarla come una eventualità remota, che non lo riguarda direttamente. Ciò non toglie che il pericolo, soprattutto quando si traduce in qualcosa di concreto, come è stato nel mio caso, può e deve essere razionalizzato. Se avessi avuto paura, onestamente avrei lasciato stare».

Torniamo al Monolite.

«La metafora cinematografica serve non solo a dare un’idea delle guerre di camorra, ma anche a rappresentare plasticamente lo stato di salute dell’intero sistema giudiziario italiano».

Allora deluso...

«Più che deluso, vivo certe situazioni con sereno disincanto. La macchina giudiziaria arranca, spesso anche a causa di contraddizioni interne, ipocrisie e inefficienze di vario genere. Fatto sta che nonostante l’azione della magistratura, boss e affiliati sembrano riprodursi come formiche, trovando sempre il modo di stringere e poi sciogliere nel sangue nuove e vecchie alleanze».

Fuor di riflessioni sociologiche, il documento da lei firmato è di rottura. Non lascia molto spazio all’immaginazione: «Né con la Cartabia, né con questa ANM».

«Purtroppo si sta avverando esattamente quello che avevo anticipato nel mio libro. Il sistema è sempre più vicino al punto di definitiva rottura. Nel documento da Lei citato, sottoscritto da quarantadue importanti magistrati, viene descritto lo stato di salute della giustizia in Italia: una sorta di bollettino medico, di diario ospedaliero che spiega come le condizioni dell’ammalato siano ormai da “codice rosso”. Qui o si interviene immediatamente o si rischia veramente il peggio…».

Suvvia, Dottor Itri, inspiri profondamente...

«Non penso di esagerare. Quando attraverso la pubblicazione delle famose chat, il cosiddetto sistema Palamara è venuto finalmente alla luce, sollevando il velo su anni e anni di intrighi e di indegne spartizioni - ciò che in molti sapevano ma che in pochissimi avevano avuto il coraggio di denunciare - si immaginava che ormai più nessuno, dentro e fuori la Magistratura, potesse continuare a voltare la faccia dall’altra parte».

Comunque seguirono dichiarazioni di condanna…

«Certo, le ricordo, ma la verità è che la maggior parte di coloro che si dicevano sconcertati o indignati - parlo anche della cosiddetta “base” - erano tutti più o meno consapevoli delle deprecabili prassi spartitorie che si svolgevano all’interno delle varie “correnti” della magistratura, spesso d’intesa con la politica. La verità è che il “sistema” andava bene anche a molti di coloro che poi, a parole, si sono spesi in parole di condanna e indignazione».

…e di denuncia!

«All’indomani dei Palamara papers si era detto che bisognava voltare pagina e che certi comportamenti non sarebbero stati più tollerati, altrimenti la politica - che peraltro certe logiche le ha sempre condivise - ci avrebbe “riformato”, e lo avrebbe fatto con spirito di rivalsa e intenti punitivi che avrebbero finito per limitare ingiustamente quell’autonomia e quell’indipendenza che sono riconosciute alla Magistratura non come privilegio, ma nell’interesse esclusivo della collettività».

Ci perdoni: la vostra reazione ricorda molto quelle prese di posizioni assunte quando si è sul filo del precipizio: per salvarsi la pelle si giura che mai più si commetteranno quegli errori.

«Il nostro documento arriva a tre anni esatti dallo “scandalo Palamara”: era del tutto prevedibile che con il tempo l’indignazione generale lasciasse il posto ad una critica di maniera, fatta di mere affermazioni di principio e di formule vuote, e, dopo una “caccia alle streghe” che ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri, il “Sistema” ha ripreso a funzionare esattamente come prima».

E infatti ci siete ricascati.

«Forse è stato così. E i tanti colleghi silenti che dopo lungo tempo si erano finalmente fatti sentire, alzando la testa dalle “sudate carte” ed uscendo per un attimo dalle proprie stanze per rivendicare la propria estraneità a certe logiche e la propria voglia di cambiamento, sono tornati nuovamente a ripiegarsi su sè stessi. Viene in mente George Orwell: “fin dall’inizio del tempo, al mondo sono esistite tre tipologie di individui: quelli in alto, quelli in mezzo e quelli in basso”».

Ovvero?

«Da noi, in magistratura, “Quelli in Mezzo” sono coloro che, fingendo di prendere le parti di “Quelli in Basso” e di combattere in nome della Libertà e della Giustizia, rovesceranno un giorno “Quelli in Alto” per prenderne il posto, in tal modo perpetuando, con la complicità della politica, un meccanismo di rincorsa al Potere che si autoalimenta, a danno dei cittadini, della efficienza del servizio giustizia e anche del comune senso della decenza».

Nel documento congiunto voi magistrati-cofirmatari richiamate una «primavera araba finita ben presto».

«Di certo, quel grido di libertà, o meglio quella richiesta d’aiuto, è rimbalzata in un quadro desolante, un terreno in cui l’Anm si è mossa in maniera “gattopardesca”».

Da Stanley Kubrick a George Orwell e a Tomasi di Lampedusa: che fa, mi appende i codici al muro?

«Certo che no! Rimango a combattere, e il mio punto di riferimento rimangono pur sempre la Costituzione, i Codici e le Pandette. Ma il cinema e la letteratura sono degli strumenti potentissimi per descrivere il clima di insoddisfazione che si avverte tra molti magistrati italiani, per come si sia arrivati a ripristinare lo “status quo”. Nel nostro documento denunciamo una serie di criticità, a partire dal fatto che la stessa Anm non abbia profferito parola per stigmatizzare la circolare della Procura Generale in tema di autopromozione ed azione disciplinare. E’ un “sistema di potere” che in Italia resta difficile da scardinare. Ma noi non ci arrenderemo mai».

Avete redatto un vero e proprio cahier de doléances.

«Abbiamo semplicemente espresso il nostro pensiero a partire dai dubbi sulla fiducia preconcetta nelle capacità taumaturgiche della ministra Cartabia di riformare con la bacchetta magica il processo civile e quello penale, accettando supinamente soluzioni scellerate (come la riforma della prescrizione e l’introduzione dell’improcedibilità dell’azione penale nei gradi di impugnazione) e rifiutando di indicare quei rimedi di buon senso e “a costo zero” che avrebbero potuto realmente accelerare la definizione dei processi. Non mi risulta che la libertà di opinione in Italia sia stata ancora abolita».

Le problematiche sono numerose e di spessore…

«La verità è che la politica – complice l’Anm - si è guardata bene dal promuovere il sorteggio temperato per la scelta dei candidati al Csm, che avrebbe messo la parola fine al potere incontrollato delle correnti, o una disciplina che ponesse fine ai privilegi (anche economici) dei magistrati “fuori ruolo”, e, in generale, una seria riforma che smantellasse davvero il “Sistema” e tutelasse finalmente l’autonomia interna di tutti i magistrati».

Addirittura attaccate frontalmente l’Anm.

«L’Associazione nazionale magistrati si è preoccupata soltanto di “patteggiare” con la classe politica una legge elettorale per il rinnovo del Csm che consentisse alle correnti di continuare a designare i propri eletti, in modo da poter gestire - con affidamento in house - il governo autonomo della Magistratura».

Rimostranze finite?

«Niente affatto. Ciò che più indigna è che, per salvarsi la faccia con la base elettorale, in vista della imminente campagna elettorale per il rinnovo del Csm, l’Anm ha inscenato una protesta di maniera, tardiva e disorganizzata, contro una pessima riforma dell’ordinamento giudiziario, concepita in chiave meramente punitiva».

Dottor Itri, ci lasci con un appello ecumenico…

«La Magistratura italiana ha il dovere di recuperare l’onore e la credibilità che ha perso negli ultimi anni e, per farlo, deve avere il coraggio di dire la verità innanzitutto a se stessa e di fare ciò che è giusto, anche a costo di operare scelte difficili».

Risaltano due dotte citazioni. Per concludere e per sperare.

«Come è scritto nel documento, nel 1931, quando fu imposto il giuramento di fedeltà ai professori universitari, giurarono tutti, meno 12: come ricordava Umberto Eco, “quei dodici hanno salvato l’onore dell’Università italiana”. “A futura memoria, se la memoria ha un futuro”, per dirla con Leonardo Sciascia».

P { margin-bottom: 0.21cm } I nomi dei 42 magistrati firmatari del documento

Franca Amadori (Corte di appello di Roma) Valeria Ardito (Procura di Verona), Giuseppe Artino Innaria (Tribunale di Catania) Milena Balsamo (Corte di Cassazione), Rosa Bia (Tribunale di Matera), Cristina Carunchio (Procura di Vicenza), Natalia Ceccarelli (Corte di appello di Napoli), Federica Colucci (Tribunale di Napoli), Linda Comella (Tribunale di Napoli), Edoardo D'Ambrosio (Tribunale di Lecce), Donato D'Auria (Tribunale di Pisa), Sergio De Nicola (Procura Generale di Cagliari), Honoré Dessi (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere), Gabriele Di Maio (Corte di appello di Salerno), Stefania Di Rienzo (Corte di appello di Bologna), Giovanni Favi (Tribunale di Torre Annunziata), Ulisse Forziati (Tribunale di Napoli), Antonella Frizilio, (Tribunale di Ragusa), Massimo Galli (Tribunale di Treviso), Barbara Gargia, (Tribunale di Napoli), Carmen Giuffrida (Commissione Europea), Paolo Itri (Procura di Napoli), Annamaria Laneri (Corte di appello di Brescia), Annagrazia Lenti (Tribunale di Taranto), Lorenzo Lerario (Procura Generale di Bari), Felice Lima (Procura Generale di Messina), Fabio Lombardo (Tribunale di Napoli), Marco Mansi (Procura di Massa), Giorgio Milillo (Procura di Udine), Eugenia Mirani (Tribunale di Pisa), Andrea Mirenda (Magistrato di sorveglianza di Verona), Paolo Moroni (Tribunale di Lecce), Pietro Murano (Tribunale di Pisa), Annagloria Muscarella (Corte di appello di Catania), Fabrizio Nicoletti (Tribunale di Livorno), Federica Ormanni (Procura di Verona), Eduardo Savarese (Tribunale di Napoli), Stefano Sernia (Tribunale di Lecce), Carla Sorrentini (Tribunale di Napoli), Anna Maria Torchia (Corte di appello di Catanzaro), Veronica Vaccaro (Tribunale di Gela), Luciano Varotti (Corte di appello di Bologna).

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Egidio Lorito