La lezione di Machiavelli (e non solo) ai politici di oggi
Ritratto di Niccolò Machiavelli (GettyImages).
Politica

La lezione di Machiavelli (e non solo) ai politici di oggi

Sono mesi che la politica fa da chioccia alla scuola, grande malata da salvare, tenere in piedi, preservare. Però investimenti pochi, reclutamento carente e lungimiranza assente. A ben guardare è la scuola, con i suoi maestri, a dover salvare la politica.

La politica da mesi si sta occupando ogni giorno di scuola e come spesso accade usa la scuola per battaglie demagogiche, partitiche, per attacchi frontali su decisioni risibili, per dichiarazioni ecumeniche di una banalità sconcertante che non aggiungono niente nemmeno al buon senso: «Si sta facendo di tutto per tenere aperte le scuole», «La scuola in presenza è un asset di questo Paese», «L'educazione dei bambini va al primo posto».

In questi giorni la ministra Lucia Azzolina ha detto a chiare lettere che «la scuola in presenza è fondamentale per tutti, dai più piccoli all'ultimo anno del secondo grado». E chi non la pensa così? Serve davvero una presa di posizione simile, posto che possa essere considerata una presa di posizione? Ancora, dichiarare questo significa che quando le scuole sono state chiuse, si è deciso perché la salute andava preservata o perché si è ritenuto che la scuola in presenza non fosse fondamentale?

Non servono e non bastano le dichiarazioni politicamente corrette, e soprattutto non è la scuola quella salvare, al contrario, quello che resta della scuola – dopo riforme in successione che l'hanno sgretolata, ma questo è un altro tema - e soprattutto quello che si insegna andrebbe ripreso, o forse letto per la prima volta, da questa classe politica, per trarre spunto, per darsi una mossa, per decidere e per farlo con il coraggio necessario.

Giacomo Leopardi più di 200 anni fa scriveva da Recanati che l'Italia non voleva bene ai suoi padri nobili perché non li studiava, anzi li dimenticava. Oggi, se scuola e cultura sono slogan e non fonte di riflessione e azione, vale ancora il pensiero leopardiano che nello Zibaldone vede «avuti a schifo i nostri sovrani scrittori» perché se non si studiano e non ci si interroga su cosa possano dirci oggi, allora si vogliono dimenticare, accantonare.

I governi stanno lavorando alacremente, forse come non accadeva da anni, perché uno stato di emergenza mette pressione, ma impegnarsi non basta, non risolve, nemmeno rasserena. Negli occhi dei ministri davanti alle telecamere si leggono preoccupazione e timore, certo anche stanchezza, che però non è un merito, ma un effetto collaterale del potere e della responsabilità che deriva da posizioni tanto desiderate e ora ricoperte.

Il potere decisionale in politica va oltre auto blu, convegni e passerelle, è invece una questione seria, è cosa da esperti ma prima ancora è cosa per uomini di valore e intrisi di alti valori. Siamo abituati a vivere la politica in bassa risoluzione, accontentandoci del meno peggio, del meno opaco, del meno lontano dalla quotidianità, del meno compromesso con lobby e potentati.

Abituarsi al brutto è drammatico e fa il gioco di una classe politica che così si mantiene e si riproduce nei palazzi, sempre uguale, anzi forse sempre peggio. A chi non l'avesse ancora capito, questa emergenza sanitaria ormai divenuta quotidianità lo sta insegnando in modo prepotente, senza distinzione di colore politico: essere al comando principalmente pesa, non gratifica.

Diamo ascolto così a due pilastri della nostra cultura, spesso citati in modo distorto e mai attuati abbastanza; uomini che sono nei libri e sui banchi di tutti gli studenti delle scuole superiori italiane. Niccolò Machiavelli è uno dei pensatori più letti, citati, fraintesi e semplificati di sempre. Nel suo Principe, anno 1513, con il tentativo di spronare l'uomo di potere di turno, ci parla ancora e ci sferza. Nel capitolo XV lo scrive chiaro: serve andare «drieto alla verità effettuale», vale a dire seguire la realtà delle cose, ragionando senza falso buonismo su «come si vive» e non su «come si dovrebbe vivere», superando le posizioni timide e le dichiarazioni buone per tutte le stagioni, tralasciando quindi tutto ciò che sarebbe bello che fosse, ma non è.

Sarebbe bello non dover ripensare la scuola in presenza, ma siamo in un momento in cui salute e lavoro vacillano, per cui occorre farlo, ad esempio, senza mezze misure. Vanno prese quindi decisioni forti, «con radicalismo», per il bene dello Stato, per la salute – intesa propriamente come salvezza - dei cittadini. Per prendere decisioni simili serve aver dedicato anni allo studio settoriale delle varie discipline, serve essere padroni di se stessi nel momento della prova, dell'ansia, dell'incertezza, serve pensare con lungimiranza e con un occhio capace di osservare la comunità tutta, non la porzione di elettori rappresentata, o la fascia sociale di cui si fa parte.

Machiavelli parla a un sovrano del Cinquecento, ma la lezione di politica vale ancora oggi e sembra riferirsi davvero a noi: non ci si improvvisa uomini di comando, e soprattutto il comando – che va inteso come servizio, non certo come potere – presenta più oneri che onori, e se non si vive così, c'è qualcosa che non va.

Due secoli prima di lui, sempre da Firenze arriva la denuncia di Dante Alighieri che nel canto sesto del Purgatorio si rivolge con un sarcasmo terrificante direttamente alla sua città spaccata, «partita», «che fai tanto sottili/provedimenti, ch'a mezzo novembre/non giugne quel che tu d'ottobre fili». Per il sommo poeta, gli amministratori della città sono capaci solo di legiferare in continuazione proponendo distinguo e particolarismi inefficaci e sempre da riscrivere il mese successivo, peraltro con un tempismo che oggi ci scuote: tra ottobre e novembre. I provvedimenti sottili non sono finissimi per accuratezza, ma solamente fragili, quindi rimandano e confondono. Ancora una volta, un testo di centinaia di anni fa pare una fotografia in alta risoluzione dello stato odierno delle cose.

Il consiglio perentorio di Machiavelli fu accolto con freddezza da Lorenzo di Piero de' Medici, tanto che il sovrano fece sapere che avrebbe preferito in dono «due cani da caccia»; allo stesso modo, l'urlo di rabbia di Dante rimase lettera morta, anzi il poeta passò inenarrabili guai proprio per avere «rimosso ogni menzogna» e avere «lasciato grattar dov'è la rogna», come scrive nel Paradiso.

Esprimersi con fermezza, avendo come obiettivo il bene comune, consapevoli di rischiare in prima persona: questa la lezione di due uomini coraggiosi e altrettanto inascoltati, allora come ora. Forse l'Italia non è cambiata mai, forse non è una mera questione di territorio, ma più in generale di testa e cuore umani, quel che è certo è che l'Italia vuole le scuole aperte ma non conosce e non studia i suoi autori capaci, dalle loro pagine, di lanciare moniti e dispensare consigli a chi potrebbe attingere a questi tesori, per diventare un uomo migliore, un politico più capace, un cittadino più consapevole, ma non lo fa.

La scuola riparta dalla frequentazione e dalla conoscenza di uomini e pensatori mirabili, e Dante e Machiavelli sono due grandissimi tra tanti grandissimi da riscoprire: solo così sarà possibile ricostruire interiorità singole capaci di scegliere il coraggio, la cultura, la bellezza, la pace e la giustizia per guidare la collettività.

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Marcello Bramati