Durigon pensioni quota 100
ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI
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Durigon, un peso massimo per "Quota 100"

E' l'artefice della Riforma delle pensioni e di "quota 100", un uomo con un solo problema, con la bilancia

Quota 100 è il nostro, e anche - nel piccolo - il mio capolavoro.

Esagerato.

Un risultato fantastico, lo scriva proprio così, perché deve essere chiaro a tutti: fan-tas-ti-co!

E cosa c’è di sensazionale, sottosegretario Durigon?

I numeri. Io sono ragioniere, credo ai numeri: 103 mila richieste già arrivate, 350 mila è la stima finale di quello che ci aspettiamo a fine anno. E poi, oltre ai dati oggettivi c’è la qualità.

In cosa?

Le prime indagini sulle domande già pervenute ci dicono che una parte importante di queste richieste provengono da persone che erano rimaste «intrappolate».

Cioè?

Senza stipendio né pensione, dopo aver lavorato una vita, perché come sanno tutti il requisito per accedere è quello di avere almeno 38 anni di contributi.

E l’altra parte di aspiranti alla pensione chi sono?

Sono lavoratori che dopo aver considerato chiuso il proprio ciclo attivo liberano il loro posto di lavoro. Un bene, quindi. Perché così si crea occupazione.

I critici della riforma dicono che non saranno sostituiti.

E questa è una panzana. Saranno sostituiti uno a uno nella Pubblica amministrazione, e saranno sostituiti anche nelle imprese, con cui io parlo tutti i giorni.

I critici della riforma mettono l’accento sui costi.

E io invece voglio metterlo sui risparmi.

Quali?

Nelle aziende il costo di chi entra a sostituire, secondo i primi calcoli, sarà di un terzo inferiore a quello di chi esce. Ecco perché saranno tantissimi i nuovi assunti, anche nel settore privato.

Però lei sa, sottosegretario, che c’è il blocco del turn over nella Pubblica amministrazione fino a novembre.

Le dico la verità? Abbiamo la difficoltà opposta: quella di accelerare i concorsi.

Cioè?

Quando saranno finiti quelli appena banditi per i posti che si sono già liberati, il blocco del turn over sarà già bello che scaduto.

Questo perché le procedure concorsuali sono troppo lunghe.

Purtroppo è così, e da sempre. È il primo tema su cui stiamo lavorando con Giulia Bongiorno: velocizzare!

Di quante persone parliamo nella Pubblica amministrazione?

Di 40 mila posti di lavoro liberati. Però sono contento perché si stia creando il più grande e positivo paradosso di questi anni.

Quale? 

Nel tempo della crisi fino a oggi avevamo avuto - e se lo faccia dire da un sindacalista - un unico grande e drammatico problema.

Ovvero?

Dovevamo gestire, con poche risorse, un enorme eccesso di esuberi. Ovvero gente da mandar via.

E adesso?

Grazie a questa riforma, spieghiamolo, dobbiamo affrontare il problema opposto: e cioè un enorme eccesso di assunzioni da fare. Vivaddio!

E a chi le dice, come il democratico Marattin: «Ma queste persone con la Fornero avrebbero potuto lavorare e contribuire ancora»?

Stiamo parlando di molti lavoratori e lavoratrici che si sentono come limoni spremuti. Le do un dato: ci sono aziende del Nord dove l’età media è 55 anni.

E questo cosa significa?

Come fai a gestire la rivoluzione di «industria 4.0» con una forza lavoro così anziana? Formare gli anziani ha costi più alti che formare i giovani.

Morale della favola?

Quota 100 fa bene sia ai lavoratori, che non ce la fanno più, sia alle imprese.

Dicono che avreste potuto abbattere la pressione fiscale, con quei soldi.

Ah si? Forse dimenticano che insieme alla riforma previdenziale abbiamo fatto il taglio del 30 per cento della tariffa Inail. Non viene raccontato mai, ma abbiamo investito un miliardo e 700 milioni di euro. Facendo per i lavoratori ancora di più.

Cioè?

Prima in caso di morte con l’Inail si davano 2.500 euro di risarcimento. Adesso almeno 10 mila.

Durigon lei è diventato per tutti

«il signor Quota 100»: quindi è come l’oste che decanta la bontà del suo vino.

No, guardi, Durigon per ora è il signor «Quota 126».

Cos’è, il parametro di un nuovo scalone previdenziale?

(Risata crassa). No, purtroppo è il mio peso, che adesso è diventato anche un tormentone radiofonico. Ma glielo racconto per bene.

È il sottosegretario che per conto di Matteo Salvini ha gestito la delicatissima partita previdenziale, è il responsabile lavoro della Lega. Claudio Durigon - nato a Latina,

ma di origine venete - ama definirsi «figlio delle bonifiche».

Ex sindacalista dell’Ugl, ex capo gabinetto di un ministero, si sente accolto nella nuova Lega: «Voi

non ci crederete, ma ormai siamo come una famiglia».

Lei si definisce «non fascista ma figlio della Buonanima». In che senso?

Non sono mai stato missino, e politicamente mi definirei un centrista. Ma i miei nonni arrivavano dal Veneto, a Littoria, per bonificare.

Quindi?

Erano contadini. Avevano avuto il terreno che il Duce assegnava a chi veniva a lavorare nelle paludi. Ha presente i bellissimi romanzi di Antonio Pennacchi?

Che tipo erano?

Nonno Raffaele e nonna Elvira,

nonno Albino e nonna Enoria. Tutta gente che ha rischiato la malaria per lavorare.

Come si chiama la contrada dove lei è cresciuto?

Santa Fecitola. Mio nonno aveva donato parte della sua terra per costruire una chiesa. Sono cresciuto in questo spazio: a metà tra la zona parrocchiale e le paludi.

Suo padre cosa faceva?

Era dipendente del Consorzio di bonifica.

E sua madre?

Lavorava al  ristorante Bellamio. Un’ottima cuoca, purtroppo.

Come, purtroppo? 

(Risata). I risultati si vedono su di me. Ha idea di che tentazione possono essere i suoi cannelloni con la cannella e la besciamella?

Ho capito perché «Quota 126».

Sono sotto sorveglianza di quello strepitoso programma che è Un giorno da pecora.

In che senso?

Ho fatto l’errore di confessare il mio peso a Radio 2. E da allora Geppi  Cucciari e Giorgio Lauro mi monitorano una volta a settimana.

Risultato?

Ho perso due chili. Ma penso che sia per errore.

Torniamo a sua padre.

Era nelle squadre che aprivano e chiudevano le dighe. Esercizio affascinante, per i mie occhi di bambino, ma anche pericoloso.

Addirittura?

Mio padre salvò una persona che era rimasta intrappolata Con una gamba nella diga, issandola a forza.

Ci riuscì.

Rimase sciancato per tutta la vita,

ma salvo. Un’impressione enorme, per me. Da allora ho capito che cosa sia il rischio del lavoro.

Scuole superiori?

Ragioneria. Ho imparato lì ad accostare i numeri al valore.

Una cosa imparato in quegli anni?

La partita doppia. Entrate e uscite devono andare sempre  insieme.

Allora torniamo ai posti di lavoro che avete creato.

Sarò realista: in tempo di crisi sarebbe stata zero, o meno uno. Così sarà un numero positivo.

È una spesa in deficit.

Per me è una questione politica: abbiamo sbloccato il mercato del lavoro.

Quanto ha preso alla maturità?

Ho preso 44: studiavo abbastanza ma non ero un secchione. Era tanti chili fa, giocavo a pallone.

Bravo?

Mi perseguita una battuta di mio padre: «Eri una promessa, ora  sei diventato un ricordo».  Ah, ah, ah.

In che ruolo giocava?

Ero mediano. Bravo nelle geometria costruttiva e abbastanza duro nella fase difensiva. Due cose che non sempre stanno insieme.

E oggi?

Non gioco più nemmeno le partite «scapoli contro ammogliati». Ho deciso che mi devo mettere a dieta.

È il primo rilevamento dei Un giorno da pecora?

Gliel’ho detto, ho perso due chili. Le mando le foto con me che mangio il pinzimonio.

Cosa ha studiato all’università?

Mi sono iscritto a Giurisprudenza. Ho dato due esami.

E poi?

Ero in C2, e nel 1993 ero arrivato a 50 milioni di stipendio. Quasi un record. Ma non riuscivo a dare più esami.

Nel 1996 si è iscritto al sindacato Ugl.

Ero diventato operaio alla Pfeiffer, Un’azienda farmaceutica. Ho costruito, e ne sono orgoglioso, le catene produttive dello Zitromax e del Norvax. «Non antibiotici» forti come antibiotici. 

Perché proprio l’Ugl, il sindacato dell’allora Alleanza nazionale?

Eravamo un gruppo di amici, una squadra affiatata. Sui posti di lavoro funziona così.

Nel 2008, il suo primo salto in politica.

Con un ruolo tecnico. Sono diventato capo segreteria dell’assessore Zedda alla Regione Lazio.

Poi torna al sindacato.

Vengo eletto vicesegretario dell’Ugl, nel 2014. Il segretario era Capone, ma io ero un «polveriniano».

E cosa votava?

An, Pdl. Una volta persino Forza Italia.

Come nasce il matrimonio di cui lei diventa sacerdote ufficiante, quello tra Lega e Ugl?

Casomai sono la sposa. Un pranzo da «Sapore di mare», dietro Palazzo Grazioli, con Salvini e Giorgetti.

E come la seducono?

Parlando di lavoro e di nazione. Salvini ci dice: «Stiamo lavorando a questo progetto per espandere la Lega in tutt’Italia». Sembrava follia, e oggi invece c’è il 19 per cento in Basilicata.

La dote di Salvini?

Matteo ascolta. Nella Lega siamo diventati una famiglia. Il suo capogabinetto, Andrea Paganelli, il suo uomo della comunicazione, Luca Morisi. Il suo uomo dei numeri, Massimo Garavaglia. Sono persone con cui lavoro e di cui sono amico.

Una frase che le ha detto Salvini che l’ha segnata.

L’ultima, pochi giorni fa, dopo una lunga riunione sulla riforma fiscale: «Immaginate di essere al vostro ultimo giorno e immaginate che dovete fare qualcosa per essere ricordati». C’è racchiusa tutta l’essenza di come stiamo al governo.

Un momento in cui si è stretto il vostro rapporto.

Dopo il 4 marzo quando mi ha detto: «Della legge Fornero ora ce ne occupiamo io e te».

Un esempio di come lavora Salvini.

La riforma è stata chiusa dopo un lungo tavolo, al ministero dell’Interno, in cui abbiamo analizzato 59 diversi scenari.

E c’erano altre ipotesi?

Stava prevalendo un’ipotesi più prudente, 64 a 36. Matteo era rimasto in silenzio, ad ascoltare, e poi ha sorpreso tutti: «Io lancio, oggi, 62 a 38. E andiamo avanti così. Il senso della rottura deve arrivare chiaro».

Cosa vi unisce sul piano umano?

Ci lega tantissimo il Milan. Il derby visto insieme, religiosamente, senza parlare di politica. Ci guardiamo le partite, anche se da posizioni politicamente distanti.

In che senso?

(Sorriso). Per me Gattuso non è il mister del futuro.

Che dice di Giorgetti?

Ha una conoscenza immensa della macchina amministrativa, e poi è un... «secchione bocconiano».  Uno, Matteo, sa parlare alla gente, l’altro, Giancarlo, al cuore della società economica.

Una cosa che non avevate fatto. Sveli un retroscena.

Giancarlo voleva aumentare i contributi figurativi per le donne, un anno per ogni figlio.

E non lo avete fatto.

Costava troppo: 500 milioni. Sarà la prossima cosa che faremo.

E Di Maio?

Ha una dote rara, nei leader forti. È capace di cambiare idea.

Lei come ci si trova? 

Essendo l’unico sottosegretario della Lega con Di Maio temevo di sentirmi un ostaggio. Oggi mi sento in squadra, anche con i grillini con cui lavoro di più, Fraccaro e Valente.

E il premier Conte?

È informale, diretto. Discutevamo via chat. Un giorno mi scrive: «Vediamoci alle undici a Palazzo Chigi». Erano le 22, io pensavo fosse per il giorno dopo. Invece stava convocando una riunione alle 23!

Così informale?

Si trova in Africa per un viaggio, noi avevamo un tavolo di trattativa, e lui mi scriveva: «Tienimi aggiornato via sms».

E, invece, la sua famiglia?

Sono separato e ho una compagna. Dal primo matrimoni, due figli: Andrea e Annalisa. Hanno 19 e 16 anni.

Cosa fa la sua compagna, Alessia?

Guida un ente di formazione. Da sempre vota Pd.

Ha provato a fare apostolato?

Il giorno delle elezioni le ho detto, senza troppe speranze: «Mi raccomando non ti sbagliare». Quando mi ha risposto, con una faccia disperata: «Ho votato Lega», non ci volevo credere.

Quanto ha sul conto?

Ventiduemila euro.

Con quanto viveva?

Con 2.500 euro. Rispetto alla vecchia sinistra, ma anche la vecchia destra, siamo gente normale.

Adesso l’Ugl è una costola del Carroccio?

È un sindacato che ha tra i suoi riferimenti anche la Lega. Stiamo «esplodendo» al Nord e nelle fabbriche.

Lei è un fan dei vecchi tavoli negoziali? 

Macché, spero che ci sia un cambio di mentalità anche nel sindacato. Basta con i tavoli e i tavolini.

Esempio?

La conferenza Stato-Regione è una sorta di liturgia stanca. Ore, ore e ore senza concludere nulla!

Lei favorisce un ex camerata dell’Ugl rispetto agli altri?

Dipende dalle idee che portano. Casomai il contrario.

Cioè?

Quando viene uno della Cgil che ha delle idee, e capita, e c’è uno dell’Ugl che non ne ha, dopo lo chiamo e gli dico: «Impara!».

Non ci credo.

Senta, le rivelo che per scrivere la riforma, mi sono consultato parecchio con l’ex ministro Damiano, che come è noto è del Pd. Ho preso parecchi caffè con Cesare e anche con Tommaso Nannicini.

Adesso li mette nei guai. E Luigi Marattin?

E no! Marattin è troppo: alla demagogia c’è un limite. Ma non ho mai avuto lo spirito del nemico, ho fatto anche la Gioventù Francescana e sono rimasto segnato.

Mi confessi la cosa più bizzarra di questa esperienza di governo.

Tutte le volte che sono stato citato nei discorsi dei capogruppo per l’approvazione del decretone. Se mi avessero detto, solo un anno fa, starai al tavolo del governo, e approveranno una tua legge, non ci avrei mai creduto,

Davvero? 

Oh, sì: ero sui banchi del governo, vicino a Cominardi e Valente. Mi sono girato verso di loro e gli ho detto: «Datemi un pizzico».

Le do un pizzico anch’io: è vero che sarà il prossimo governatore del Lazio?

È vero che il centrodestra vincerà nel Lazio appena finisce l’era Zingaretti. Se sarò io o un altro, lo decidiamo insieme perché facciamo gioco di squadra. n

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Luca Telese