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ANSA/Giuseppe Pipita
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Crisi di Governo, a cosa punta Salvini

Per molti la scelta di far cadere il Governo è stata sbagliata ma il rapporto del leader della Lega con il popolo è unico

«Papeete», gli hanno urlato in Parlamento per interrompere il suo intervento. Senza capire, che ogni volta che lo sottolineano gli fanno un immenso regalo. Senza capire, soprattutto, che è proprio aver trasformato la spiaggia nella sua scrivania che dà forza e voti a Salvini. Non si possono comprendere, infatti, le scelte che quest’ultimo ha fatto e tanto meno quelle che farà se non si riparte di qui. E se non si guardano con occhi disincantati la spiaggia a torso nudo e le lunghe file di fan in attesa del selfie, cioè il quotidiano bagno di folla, con cui il leader della Lega continua a immergersi fisicamente dentro il suo popolo. Ad assumerne gli umori. E anche gli odori, probabilmente. Cosa che fa storcere il naso ai più, perché è chiaro che il popolo puzza, come le camicie del medesimo Salvini alla fine del rito. Ma che dà l’idea che egli vuole dare di sé: un leader che preferisce stare in mezzo alla gente piuttosto che nelle stanze del potere. E che, a differenza di tanti suoi colleghi e predecessori, si fa criticare non perché ha dimenticato la gente ma perché ha dimenticato le stanze del potere. Un ribaltamento dell’eterno sospetto che grava su chiunque venga eletto.

Negli ultimi giorni dell’infuocato e ingarbugliato dibattito politico ne sono state fatte e scritte di tutti i colori. Ipotesi, congetture, trame oscure, retroscena bizantini, mosse e contromosse, che a un certo punto hanno fatto apparire Salvini debole come non mai. E, sicuramente, nella consueta logica di palazzo, è vero: il leader della Lega ha perso la prima battaglia in Parlamento sulle mozioni di sfiducia; è andato a vuoto con il tentato spariglio sul taglio dei parlamentari; è apparso bisognoso come non mai dell’aiuto di Berlusconi e Zingaretti; ha finito per rivitalizzare il fantasma di Renzi; è stato criticato sui tempi persino dal suo scudiero Giancarlo Giorgetti; ha visto respingere al mittente ogni lontana ipotesi di tentativo di riappacificazione con i Cinque Stelle. E tutto questo mentre attorno ogni cosa sembrava precipitare: il premier Giuseppe Conte lo accusava pubblicamente di essere «ossessionato» dall’immigrazione, imputandogli dosi eccessive di «rabbia», «ansia» e «slealtà»; il Tar picconava i suoi decreti per respingere le Ong; Di Maio non gli porgeva nemmeno la mano per il segno della pace durante la Messa in ricordo delle vittime del ponte Morandi a Genova; il blog dei Cinque Stelle lo accusava di aver mandato a monte un governo per coprire il pc di Armando Siri (niente meno); e gruppi di contestatori più o meno organizzati tentavano di interrompere i suoi comizi con lanci di oggetti, canti di Bella Ciao e altri show assortiti...

Qualcuno ha descritto un Salvini come scosso da tutto ciò. Lui stesso ha ammesso di non aver dormito alcune notti prima di prendere la decisione di rompere la maggioranza con i Cinque Stelle. Alcuni cronisti hanno intravisto commozione nelle consuete citazioni dei figli. E in tanti hanno cominciato a prefigurare (forse a sognare) il crollo verticale dei consensi del Capitano. Cosa sempre possibile, per carità. Ma non così evidente da quelle piazze e da quelle file di gente in attesa del selfie, che dovrebbero essere osservate con più rispetto. Infatti, come dicono i sondaggi, la maggioranza degli italiani la pensa come loro. Pensa cioè che la soluzione della crisi non possa che passare attraverso lo strumento più semplice e trasparente che una democrazia abbia a disposizione, cioè le elezioni. E pensa che, al contrario, un governo-pateracchio in funzione anti-Salvini, il nuovo Clm (Comitato di Liberazione da Matteo), un’ammucchiata di ex nemici che dimenticano anni di reciproci e feroci insulti con l’unico scopo di dare addosso all’Odiato Nemico, l’Arca di Noè contro il diluvio di voti leghisti sarebbe solo un modo dei parlamentari per restare attaccati alla cadreghina (e allo stipendio). Soluzione che, probabilmente, finirebbe per portare il suddetto Odiato Nemico a racimolare ancor più consensi alla prossima occasione elettorale, vicina o lontana che essa sia...

E qui si arriva al grande paradosso: tutti coloro che scommettono sul declino di Salvini, che annunciano ogni giorno la fine della sua stagione e la crisi definitiva della sua popolarità, non vogliono che tutto ciò sia misurato. Dicono: per gli italiani Salvini è finito. Ma non vogliono che siano gli italiani a dirlo. E paradosso nel paradosso lo fanno in nome della democrazia. Cioè i paladini della democrazia difendono la democrazia cercando di impedire l’esercizio del principale strumento di democrazia, che è per l’appunto il voto. Non è un capolavoro di facciatostaggine acuta?

La verità è che c’è un’ipocrisia di fondo in tutte le accuse che vengono rivolte a Salvini: non è vero, infatti, che quest’ultimo faccia paura perché è un dittatore, un neo Mussolini, un aspirante Hitler, un nemico della democrazia, come cercano di raccontarsi l’un l’altro i super soloni, se non altro per darsi un tono. Salvini fa paura proprio per il motivo contrario: perché si appella alle elezioni, cioè allo strumento democratico per eccellenza. E perché fa paura? Per capirlo bisogno tornare lì, sulle spiagge assolate dei selfie, in mezzo alla gente, dove non appaiono per nulla quei segnali di debolezza che vengono sbandierati dai giornali e dagli editorialisti mainstream. Non era mai successo prima, infatti, nella storia repubblicana, che un leader facesse così forza sul suo personale consenso: non su ragion di Stato, Usa, Chiesa, Pcus, Bruxelles, non su poteri economici o magnati nascosti. Solo il suo consenso (se ci sarà). È questo a renderlo assai poco controllabile. Assai temibile. È questo a terrorizzare l’establishment.

È chiaro, infatti, che il popolo puzza, proprio come quelli che stanno lì in fila sulla spiaggia, aspettando di farsi un selfie con Salvini. Il popolo ha le ascelle pezzate e l’alito pesante. Il popolo, soprattutto, non conosce gli austeri scritti di Sabino Cassese, non si esprime nelle forme gradite a Paolo Mieli, magari osa andare a votare senza prima aver compulsato l’ultimo editoriale di Repubblica. E per questo può essere degradato a «popolino», come ha scritto Eugenio Scalfari, o descritto come congrega di villani analfabeti. Niente di nuovo. È già successo con la Brexit. È già successo con Trump. Quando il popolo non si adegua alla volontà della gente che conta, fa schifo. E allora, come per magia, la vera democrazia diventa fare il contrario di quello che vuole il popolo, in base al principio espresso magistralmente da Bertold Brecht per la Ddr degli anni Cinquanta: Il Comitato centrale ha deciso che siccome il popolo non è d’accordo, bisogna cambiare il popolo.

Salvini con i suoi selfie, il suo pane e Nutella, la sua canoa, il mojito in spiaggia, e tutte quelle pose o cose che suscitano ribrezzo nelle stanze del potere, non fa altro che puntare il dito contro la contraddizione più forte del sistema democratico, nell’era della comunicazione diretta e della crisi dei corpi intermedi. La contraddizione è questa: a lasciare la parola al popolo c’è il rischio che il popolo dica quello che vuole. Non quello che vogliono le sezioni di partito (che non ci sono più). Non quello che vogliono le parrocchie (che non ci sono più). Non quello che dicono le Tv (che contano sempre meno). C’è il rischio che il popolo dica ciò che pensano quelli che si fanno il selfie sulla spiaggia. E, certo, si può anche dire alla Eugenio Scalfari che quelli lì non sono in grado di pensare né di votare. Ma che fatica poi, chiamarla ancora democrazia.

Credetemi: su quella spiaggia, in mezzo a quei selfie, c’è la chiave per capire perché Salvini faccia tanta paura. Ma c’è anche la chiave per capire perché Salvini debba avere un po’ di paura. Perché non avere il sostegno di poteri intermedi, non avere tutele dall’alto, non avere benedizioni di papi cattolici o laici, non avere null’altro che il proprio consenso, espone terribilmente al rischio di caduta, senza alcuna protezione. Perché, si sa, il consenso dei selfie sulla spiaggia va e viene, quanto mai rapidamente. Si piglia rapidamente, si perde ancor prima. Basta nulla. È per quello che Salvini ha rotto l’alleanza con i Cinque Stelle, prima che i miasmi mefitici della palude potessero togliergli il respiro. E l’aura del vincitore.

Mossa azzardata, si capisce. Ma forse inevitabile. Tutti si sono scandalizzati quando il vicepremier ha chiesto «pieni poteri». E via con i paragoni con il Duce e Hitler, dimenticando che «pieni poteri» li hanno chiesti tutti, nella storia della Repubblica, persino (e ho detto tutto) Paolo Gentiloni. In realtà quei «pieni poteri» sono soltanto un’espressione di consapevolezza. La consapevolezza che per mantenere il consenso, per continuare ad avere questa forza fisica, quest’immagine quasi taumaturgica che la folla gli tributa su ogni piazza, a Salvini non sarebbe bastato vivacchiare. E non basterà qualche mezzo successo, qualche zero virgola, qualche riformuccia all’acqua di rose. Ci vorrà un cambiamento radicale. Profondo. Totale.

E qui, quindi, viene la sfida più dura: se dovesse ottenere quello che vuole, se dovesse avere le elezioni e se riuscisse a vincerle, Salvini non avrebbe più alibi. Dovrebbe portare risultati. Lampanti e in tempi rapidi. Ma avrebbe allora le forze, gli uomini e i mezzi per farlo? Per ribaltare economia e magistratura così come ha ribaltato gli scafisti del mare? Sarà in grado di produrre sul piano della lotta alla disoccupazione e della malagiustizia, quello che ha ottenuto bloccando gli sbarchi? Riuscirà a ridurre le tasse? A cambiare il rapporto con l’Europa? Ad accorciare i tempi dei processi? Queste promesse gli italiani le hanno sentite mille volte. E sempre sono state tradite. Salvini potrà mantenerle? Non è detto. Anzi, è difficile. Molto difficile. Però il leader della Lega ha un vantaggio rispetto a molti altri, e il vantaggio va ancora una volta cercato in mezzo alla folla dei selfie. Quella con le ascelle pezzate. Quella che lo aspetta. Quella che suda. Quella che lo vota. Quella che gli dà il consenso. Ebbene: quella folla si aspetta questi cambiamenti. Li aspetta in fretta. E non lo perdonerà se si sentirà tradita. Questo è l’unico motivo per cui Salvini potrebbe farcela. Questo è il vero motivo per cui fa davvero paura.

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Mario Giordano

(Alessandria, 1966). Ha incominciato a denunciare scandali all'inizio della sua carriera (il primo libro s'intitolava Silenzio, si ruba) e non s'è ancora stancato. Purtroppo neppure gli altri si sono stancati di rubare. Ha diretto Studio Aperto, Il Giornale, l'all news di Mediaset Tgcom24 e ora il Tg4. Sposato, ha quattro figli che sono il miglior allenamento per questo giornale. Infatti ogni sera gli dicono: «Papà, dicci la verità». Provate voi a mentire.

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