MArio Monti
(Giorgio Cosulich, Getty Images)
Politica

La triste sorte dei Partiti del Presidente

Conte vuole il suo partito e per questo non sarebbe contro le elezioni anticipate. Attenzione, però. A Monti e Dini non andò proprio bene

Nonostante le elezioni anticipate non sembrino lo scenario più probabile, si è tornato – nelle scorse ore – a ipotizzare la nascita di un partito personale del premier dimissionario, Giuseppe Conte. Uno schieramento che, secondo una rilevazione Emg, si attesterebbe al 10,2% dei consensi. Una cifra indubbiamente ragguardevole, se considerata in sé stessa.

Eppure si scorgono dei problemi. Innanzitutto parrebbe da escludere che un eventuale partito di Conte sia in grado di allargare la base elettorale dell'attuale maggioranza di governo: un tale contenitore non farebbe infatti che cannibalizzare voti del Movimento 5 Stelle (5,1%) e, in parte, del Partito Democratico (3,3%). Va quindi da sé che uno schieramento contiano avrebbe come unico effetto quello di ridisegnare gli equilibri interni al complicato fronte giallorosso, ma disporrebbe al contempo di scarso appeal verso elettori esterni a quel perimetro. In secondo luogo, bisogna fare molta attenzione anche alla natura del consenso, registrata dalle rilevazioni. Conte – lo dimostra la sua storia politica – non è mosso da particolari ideali e non propone visioni del mondo. Ne consegue che questo consenso non abbia una connotazione politico-ideologica. Ora, non trattandosi onestamente di una figura granché carismatica, è molto probabile che tale consenso si fondi più sul ruolo di premier (finora incarnato) che non sulla sua persona. Il che può essere per lui un problema.

La storia mostra infatti come i partiti degli ex presidenti del Consiglio non abbiano mai goduto di eccessiva fortuna. Ricordiamo innanzitutto Rinnovamento Italiano, schieramento fondato nel 1996 da Lamberto Dini, che – alleatosi con il centrosinistra alle elezioni politiche di quell'anno – si fermò al 4,2%. Nel corso dei mesi successivi, la compagine vide tra l'altro una serie di defezioni, finendo sempre più in un cono d'ombra. Tanto che, alle elezioni europee del 1999, dovette accontentarsi di un misero 1,1%. Elemento che avrebbe portato – pochi anni dopo – alla confluenza di Rinnovamento Italiano nella Margherita. Anche a Mario Monti le cose non andarono troppo bene. Nell'aprile del 2012, ci fu chi disse che un suo partito avrebbe addirittura conquistato il 30% dei voti. Ciononostante alle elezioni politiche del 2013 il suo schieramento, Scelta Civica, si attestò tra l'8% e il 9%. Un'esperienza partitica che, dopo varie scissioni, defezioni e alleanze, si è alla fine dissolta.

Qualcuno potrebbe obiettare che il caso di Conte è diverso, in quanto – differentemente da Dini e Monti – la sua figura non nasce originariamente da un'energica iniziativa del Quirinale. Ricordiamo infatti che Dini e Monti vennero di fatto scelti rispettivamente da Oscar Luigi Scalfato e Giorgio Napolitano, per gestire – in entrambi i casi – uno scenario post Berlusconi. L'origine di Conte è al contrario differente, visto che – ai tempi del suo primo governo – fu proposto "dal basso", vale a dire da Movimento 5 Stelle e Lega, come figura in grado di trovare un punto di equilibrio in seno a quella maggioranza bipartitica. Sennonché, già nel corso del suo primo incarico, Conte aveva iniziato man mano a smarcarsi dalla compagine gialloblu (soprattutto – guarda caso – sui temi europei). Ed è proprio al termine di questo percorso che, alla nascita del governo giallorosso, Conte è diventato a pieno titolo una "creatura quirinalizia": un punto di convergenza "dall'alto", che avrebbe dovuto garantire l'esistenza di una maggioranza radicalmente eterogenea in chiave anti-sovranista. Insomma, tutto sommato la storia si ripete: perché, se prima era il Cavaliere che doveva essere tenuto alla larga, adesso sono Lega e Fratelli d'Italia. Il punto è che, se la storia si ripete, allora a Conte non convenga forse granché seguire le orme di Dini e Monti.

È del resto probabile che il premier dimissionario ne sia ben consapevole, vista l'energia con cui sta tentando di resistere a Palazzo Chigi. È quindi plausibile che lo spauracchio del partito contiano possa essere uno strumento di pressione rivolto proprio ai componenti della stessa maggioranza giallorossa. Un modo, insomma, con cui Conte punta a ribadire di non essere un mero artificio di palazzo, ma di avere anche lui – all'uopo – un seguito popolare (superiore a Italia Viva e in grado di impensierire Movimento 5 Stelle e Pd). Eppure il premier deve fare attenzione: perché, al di là dei precedenti storici fallimentari, questa sorta di minaccia velata potrebbe indurre proprio gli alleati a scaricarlo, mandando ben presto in soffitta lo scenario di un Conte Ter.

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Stefano Graziosi