La piazza che vuol farsi strada
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La piazza che vuol farsi strada

Il Cairo, Kiev, Atene, Istanbul ma anche Milano e Torino. La piazza diventa un palcoscenico per la rabbia. Che spesso si spegne nella delusione

Manifestanti accampati, molotov e sassi, poliziotti in assetto antisommossa, urla contro il presidente. Può essere piazza Maidan a Kiev, ma anche piazza Tahrir al Cairo. E perché non piazza Syntagma ad Atene, o una delle tante piazze nel mondo infiammate dal movimento (contagioso ma passeggero) di Occupy Wall Street? Dal 2011 le piazze sono tornate a essere teatri di battaglia contesi in una lotta che è anche simbolica: prendere la piazza vuol dire prendere il potere (lo sanno bene i militari egiziani, che pochi mesi dopo la caduta di Hosni Mubarak cercarono di trasformare piazza Tahrir in un anonimo giardino , srotolando centinaia di metri di tappeto erboso).

Le battaglie che si combattevano in campo aperto sono entrate nelle ristrettezze dello spazio urbano. Una guerra simulata, ottima per la diretta tv, che si svolge dentro i confini di una piazza, qualche metro quadrato d’asfalto che diventa "il posto dove una tenda e una coperta possono risolvere tutti i tuoi problemi, il luogo in cui abbiamo sognato che tutto l’Egitto un giorno sarebbe diventato Tahrir" dice Ahmed Hassan, l’attivista al centro del documentario The Square , candidato agli ultimi Oscar. La sua storia, finita sul grande schermo, è stata seguita da tanti, negli ultimi mesi, compresi i manifestanti di piazza Maidan, che hanno sfidato il freddo della notte ucraina per imparare l’insegnamento della Primavera araba e dialogare con il produttore del documentario via Skype. Le due piazze hanno molti punti di contatto, a partire dal nome: Maidan, che sta per "indipendenza", deriva dall’arabo. Anche in piazza Tahrir (che sta per "liberazione") c’erano l’esercito e le bande di picchiatori, senza insegne ma dal chiaro mandante, che passavano la notte a massacrare i manifestanti. In Egitto la "mukhabarat", la polizia segreta, usava l’elettroshock, in Ucraina degli "sconosciuti" hanno inchiodato l’attivista Dmytro Bulatov a una porta di legno.

Le piazze sembrano fatte per accogliere la rabbia e le aspettative di cittadini esasperati, che si ritrovano subito come su un palcoscenico. "Le piazze sono dei teatri, una volta che un gruppo vi si raduna diventa difficile farlo sgomberare" ha scritto il giornalista inglese Simon Jenkins sul Guardian. "Se fossi un dittatore, farei proprio quello che voleva fare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a Gezi Park: ci costruirei un centro commerciale".

Non tutte le piazze sono uguali. Non basta sceglierne una con una forte carica simbolica, come hanno fatto i Forconi, che hanno bloccato per giorni l’evocativo piazzale Loreto a Milano. "Servono piazze al centro della città, perché bisogna rompere l’ordine costituito là dove ci sono i palazzi del potere" dice Mark R. Beissinger, professore di politica all’Università di Princeton, che ha studiato a lungo anche la penultima protesta che ha riempito piazza Maidan: era il 2004, a manifestare c’era Yulia Tymoshenko, con la treccia bionda d’ordinanza e una sciarpa del colore della rivolta, la Rivoluzione arancione. "Se la protesta vuole essere efficace deve rompere l’ordinario, deve stravolgere la quotidianità" afferma Beissinger. "E deve avere un impatto fisico, che non si possa ignorare, che attragga anche chi è scettico. Internet e i social network possono essere strumenti utili, ma non possono dare un briciolo della carica di rottura che dà un’occupazione".

La proteste di piazza degli ultimi anni, esasperate dalla crisi economica, sono state spettacolari, impetuose, trascinanti. Abbiamo sperato che fossero i dolori della crescita della democrazia, che si stava imponendo in Nord Africa, o una reazione contro le speculazioni di certa finanza. Poi però l’onda è tornata indietro e ci siamo scoperti delusi: le promesse di un Egitto democratico sono state dirottate dai Fratelli musulmani, le regole di piazza Maidan sono state dettate da estremisti di destra, le richieste di uguaglianza di Occupy o degli indignados di Puerta del Sol sono evaporate senza nemmeno essere ascoltate. Non che la piazza virtuale del Movimento 5 Stelle abbia dato risultati migliori, finora.

Il problema, secondo Beissinger, è nelle premesse: "La gente scende in piazza per manifestare contro qualcosa, non a favore di qualcosa. Quella che si ritrova a manifestare è una folla di persone con le preferenze politiche più disparate, che si ritrovano insieme solo perché in quel momento hanno un obiettivo comune: far cadere il potente di turno". Per un attimo le differenze passano in secondo piano, ma poi, "se la rivoluzione riesce e chi è al potere cade, i rivoluzionari si ritrovano di nuovo divisi dai litigi".

È questo il punto in cui l’ebbrezza della vittoria cede il passo alla disillusione. Come se, avendo mangiato il frutto proibito, si scoprisse di colpo di essere nudi: "Le rivoluzioni rovesciano i vertici del potere, ma non cambiano per magia i problemi economici e sociali che hanno portato la gente in piazza" osserva Beissinger. Per rispondere al disagio servono risposte complesse, che richiedono tempo, impegno, disposizione al compromesso, tre aspetti che non sempre la piazza è disposta ad accettare. Alla resa dei conti con la realtà, "la rivoluzione diventa una danza: si fa qualche passo avanti, poi qualche passo indietro" ha detto ai manifestanti di Kiev Karim Amer, blogger di piazza Tahrir e produttore del documentario The Square.

Il guaio è che, quando arrivano i carri armati, i passi indietro iniziano a essere troppi. Per non parlare degli effetti indesiderati: le rivolte di piazza Tahrir hanno aperto la strada alla Fratellanza musulmana che, nel suo anno al governo, ha applicato una versione tutta sua della democrazia: chi vince si prende tutto. La lotta appassionante di piazza Maidan ha dato a Vladimir Putin il pretesto per occupare con i suoi uomini la penisola della Crimea, e trascinarla verso la secessione. Gli scontri di piazza Syntagma, ad Atene, hanno portato al governo Nea Dimokratia, il partito che ha mentito sui bilanci dello Stato e ha posto in questo modo le basi per la crisi del debito greco.

"Ma la rabbia della piazza non va sottovalutata, perché può dare sorprese" dice Mick Taussig, antropologo della Columbia University, che si è occupato del fenomeno nel suo libro Occupy: tre inchieste sulla disobbedienza . "Quando la piazza si svuota, il disagio rimane, pronto a tornare in superficie in forme inaspettate" sostiene Taussig. "Guardate quello che è successo a New York: le proteste di Occupy Wall Street non hanno risolto molto, ma è grazie all’onda di quelle proteste se un personaggio fuori dagli schemi come Bill de Blasio è diventato sindaco della città".

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Marco Pedersini

Giornalista. Si occupa di esteri. Talvolta di musica. 

Journalist. Based in Milan. Reporting on foreign affairs (and music, too). 

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