Obama-Putin: la diplomazia non basta
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Obama-Putin: la diplomazia non basta

La politica estera della Casa Bianca è insufficiente per risolvere le nuove sfide internazionali, dove l’aggressività paga più della diplomazia. Si veda il caso della Crimea

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L’autorevole quotidiano statunitense ‘Washington Post’stamanioffre ai suoi lettori una seria riflessione sulla politica estera americana, attraverso un articolo dal titolo dubitativo “Obama ripenserà la sua strategia globale?”. Il giornale del Watergate s’interroga in particolare sul valore odierno del “constructive rethinking”, ovvero di quel costruttivo ripensamento della strategia internazionale americana e, per farlo, prende come riferimento i casi di Siria e Ucraina (come potrebbe essere altrimenti?) spiegando quali opzioni ha oggi la Casa Bianca per non subire la politica aggressiva degli altri player nel Grande Gioco geopolitico.

 

Se, come scrive l’editorialista Fred Hiatt, nei casi citati i cattivi ragazzi sono Bashar Al Assad e Vladimir Putin (e non invece il presidente Obama), è pur vero che il tentativo del presidente USA di cercare la conciliazione con entrambi non ha prodotto risultati apprezzabili né quelli sperati. La diplomazia, infatti - almeno quella offerta dal Segretario di Stato John Kerry - pare ormai avere le armi spuntate di fronte a un crescendo in aggressività che contraddistingue quasi in toto le vicende dell’Europa e del Medio Oriente.

 

La via diplomatica era e resta al momento la scelta unica del presidente americano, una teoria della quale Obama è parso sempre profondamente convinto e che voleva sperimentare sul campo, anche per segnare una forte discontinuità rispetto all’Amministrazione “strong” di George W. Bush. Averla applicata ha portato ad alcuni risultati, ma sono essi sufficientemente positivi e tali che, proseguendo secondo questa direzione, alla fine ripagheranno gli sforzi?

 

Crimea e Ucraina: errori USA a confronto
Circa la presa russa della Crimea, si è scelto di non agire. Come hanno sottolineato Obama e la NATO stessa, non vi erano prima e non vi sono neanche adesso opzioni militari praticabili. Dunque, si sta sostanzialmente accettando da spettatori quanto la Russia sta compiendo, salvo dare valore e significato alle sanzioni economiche comminate a tutto danno dell’inner circle del presidente Putin. Le quali, tuttavia, per quanto forti, non rappresentano certo una soluzione.

 

Per quanto riguarda la Siria, invece, l’aver temporeggiato sull’attacco militare non ha fatto altro che avvantaggiare il regime di Assad, quello stesso che - come ricorda anche il WP – aveva “i giorni contati” già nel 2012 e che era atteso crollare sotto i colpi dei ribelli. Così, oggi Damasco è più forte di prima, trova un supporto non indifferente nella Russia, la catastrofe umanitaria in tutta la regione è sotto gli occhi di tutti e persino i jihadisti, che Obama voleva sconfitti per sempre, hanno ripreso vigore in Medio Oriente, facendo della Siria una base per le loro scorribande nell’intera regione.

 

In entrambi i casi, dunque, il tentativo di avvicinare diplomaticamente la Russia è miseramente fallito e mai come oggi le relazioni tra questi due Paesi sembrano tornate indietro di trent’anni. La sentenza è di là da venire, ma il giudizio sull’Amministrazione Obama – almeno per ilWashington Post– pare comunque andare in una direzione precisa: Barack Obama credeva che le risposte militari fossero un’opzione da relegare nel Novecento, ma si è sbagliato.

 

La strategia Obama subirà una trasformazione?

Il comandante in capo sperava che nel Ventunesimo secolo si sarebbero potute superare le logiche del passato e che, con lui al comando, l’America avrebbe finalmente potuto risolvere i contenziosi internazionali senza più l’uso delle armi (o meglio, senza veri e propri interventi militari). Da questa linea guida sono così scaturite: la riduzione urbi et orbi di armi e soldati, il ritiro progressivo delle truppe da Iraq e Afghanistan, il disinteresse in Libia, il passo falso in Siria, l’allontanamento dall’Egitto e il parallelo rivolgimento verso l’Asia e il Pacifico, dall’Iran alla Cina.

 

Ma se il passato è la storia e dalla storia non si può prescindere per leggere il futuro, allora dobbiamo osservare che il tentativo di Vladimir Putin di rafforzare il suo Paese e ricreare i fasti dell’URSS, al momento paga più delle aperture al dialogo del suo antagonista americano. Per citare Fred Hiatt, Barack Obama “ha giudicato il mondo abbastanza sicuro da poter ridurre drasticamente le spese militari, e l’Europa e il Medio Oriente abbastanza sicuri da poter giustificare un pivot-to-Asia”. Invece, con il ridimensionamento degli Stati Uniti, “il mondo è diventato più pericoloso”.

 

Conosciamo bene l’istintiva reazione della Casa Bianca a queste critiche che, ovviamente, non giungono solo dal ‘Washington Post’: trincerarsi dietro la negazione del fatto che il “disimpegno” sia mai realmente avvenuto. Eppure, se per il WPtre anni di presidenza Obama sono sufficienti a cambiare rotta (grazie anche alla ripresa economica nel Nord America), la difficile congiuntura internazionale in cui ci troviamo non favorisce certo il premio Nobel per la Pace mentre invece rafforza il nuovo zar di Russia, che sta scommettendo tutto proprio sulla debolezza politica degli Stati Uniti d’America.

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Luciano Tirinnanzi