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Noa, vivere è un diritto. Ma anche un dovere

La vicenda di Noa che si è lasciata morire a 17 anni ci mostra come dobbiamo combattere la "pulsione della morte" di questo tempo

Quante aspiranti Noa in Olanda e negli altri Paesi del nord Europa si sono messe in fila per chiedere sulla scia della ragazza diciassettenne, il suicidioassistito? Più di settemila nella sola Olanda l’avevano preceduta rivolgendosi alle agenzie di morte per farla finita. E tanti altri morituri ne spuntano ora, come funghi velenosi, perché laddove c’è la possibilità d’interrompere la vita e c’è ampia notizia di volontà esaudite, si apre subito la via all’emulazione. Non si tratta dunque di un «caso Noa» ma di una regola o quantomeno una tendenza. Non stiamo parlando di eutanasia ma di suicidio assistito, anzi peggio, lasciar morire di fame e di sete. Che non riguarda malati terminali di mali incurabili, esistenze ridotte allo stato vegetativo ma di ragazzi lucidi, a volte integri ma depressi, che soffrono nella mente. La pratica è prevista ormai dal 2002, col protocollo di Groningen, estesa anche ai bambini e a quanti soffrono, anche solo psichicamente, e perciò patiscono «pessima qualità della vita». Come dire che chiunque sia gravemente depresso e intenzionato a farla finita può alla fine di un iter ottenere l’aiuto a morire. Altrimenti, si dice, si uccide per conto suo.

Da una parte c’è la diffusa pulsione di morte, di auto-distruzione o di defezione, che attanaglia molti ragazzi ai primi urti della vita. Crescono i suicidi per depressione, per irrisione dei coetanei, per insuccesso a scuola o nella vita sentimentale, o perché avvertono di essere esclusi dai canoni vincenti. Un trauma alle spalle, come quello di uno stupro subito nell’infanzia, aggrava la situazione; o a volte, come nel caso di Noah Pothoven, la determina. L’anoressia può essere una via per auto-cancellarsi. La voglia di finire, il cupio dissolvi, è la malattia di vivere drammatizza la fragilità dei ragazzi, l’impietoso egoismo competitivo che domina, le eccessive aspettative di felicità loro instillate, la solitudine rispetto alla famiglia e ai luoghi di socializzazione tradizionali (scuola, chiesa, palestra e associazioni). Il vuoto di idee e di ideali, l’assenza di fedi e di motivazioni a cui dedicare la vita, rendono impossibile sublimare le sofferenze e dunque le rendono insuperabili.

E poi incide molto la presenza attiva di agenzie pubbliche di morte, col supporto culturale di modelli che incitano alla libertà come autodeterminazione e trasgressione. L’Olanda è ormai da anni avvertita come luogo alternativo alla vita reale e alle sue limitazioni. Modello di libertà senza limiti. In Olanda è consentita la più ampia libertà sessuale e transessuale, l’uso facile della droga, la facoltà più larga di abortire, la pratica consentita dell’eutanasia fino al suicidio assistito, esteso anche ai minori. Il Belgio segue a ruota, non distanti i Paesi scandinavi e la Svizzera, il nostro più vicino luogo di espatrio volontario dalla vita. Ci dev’essere un nesso tra l’origine protestante e calvinista di quei Paesi e l’uso incondizionato della libertà, anche nel senso dell’autodistruzione e del suicidio. I ragazzi che vivono nei Paesi d’impronta cattolica come il nostro sono schiacciati tra due modelli cupi: a nord dal libero nichilismo dei loro coetanei post-protestanti e a sud dal fanatico integralismo dei loro coetanei neo-islamici. A volte ne sono risucchiati, soprattutto dai primi, e reputano un passo avanti quel che è invece un passo fuori dalla passione calda della vita.

C’è un odore di morte che si propaga in queste campagne dei media, unite da uno spirito ostile alla procreazione, ai legami, alla vita e favorevole al libero disfarsi, in un passaggio dall’edonismo gaudente della dolce vita all’edonismo disperato della dolce morte. È inquietante l’analogia tra le nuove prassi mortuarie e lo smaltimento dei rifiuti: via cimiteri e discariche, si va in entrambi i casi verso l’incenerimento dei corpi come dei residui, e verso il riciclaggio e compostaggio dei rifiuti come degli organi vitali. Nascita, matrimonio e morte sono stati per millenni i sacri cardini della vita personale, famigliare e comunitaria. Nell’arco di pochi anni i tre eventi decisivi su cui si è fondata ogni civiltà sono stati depotenziati, stravolti e negati. La denatalità e l’aborto, la crisi dei matrimoni e la loro equiparazione a ogni tipo di unione, la rimozione della morte e al tempo stesso un sottile desiderio di estinzione che pervade le società senili, salutiste e disperate dell’ultimo occidente: c’è un filo nero che percorre la nostra epoca e ne esprime la pulsione di morte. L’unico dovere biologico che abbiamo, diceva Umberto Veronesi, è morire. Ma c’è anche il dovere di vivere, e non deriva solo dallo spirito cristiano, ma anche dalla lezione del mondo pagano, da Seneca a Cicerone; la vita è milizia e non si può disertare. E Marco Aurelio si forzava di vivere «per compiere il mio mestiere di uomo». Davvero la vita è interamente e solamente mia? Fiat voluntas dei.

Noa riteneva che amare è lasciar andare chi ami; e se amare fosse invece il contrario, tentare di salvare chi ami a ogni costo? Toccante al proposito la testimonianza inversa di Michela Marzano, grata verso chi le impose di vivere quando lei voleva farla finita. A 17 anni Noa aveva ancora tanto tempo per cambiare giudizio sulla vita, tante esperienze da fare, tanto futuro davanti. Chi è vecchio ha qualche diritto di gettare la spugna, è stanco, malato, sconfitto. Chi è ragazzo no. Non ha maturato il diritto a disperare. Tanti ragazzi hanno passato la depressione. Sono fioriti, hanno convissuto bene con la disperazione o hanno messo a frutto la disperazione. Non si può disperare a priori. Si deve provare a vivere, è un diritto e un dovere.

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Marcello Veneziani