L'ultima battaglia di Mandela
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L'ultima battaglia di Mandela

"Madiba" sta lottando contro la morte, anzi, la sta affrontando, a testa alta, come ogni cosa della sua vita

Strano. Quando un uomo sopravvive alla propria leggenda ed è tra noi ma già appartiene alla storia (non al passato, al futuro, neppure al presente, ma allo spazio senza tempo degli eventi che cambiano la vita degli uomini), è come se fosse morto e vivo al tempo stesso. Come se la morte fosse per lui un passaggio delicato e impercettibile, dalla vita alla vita.

Ecco, credo che proprio questo strano fenomeno stia accadendo a Pretoria, nell’ospedale dove è ricoverato Nelson Mandela. Che per tutti è "Madiba", dal nome scelto per lui dal clan. Oppure Tata, padre. O anche Rolihlahla,  che profeticamente significa “colui che porta i guai”. Mandela i guai li ha portati a chi avrebbe voluto l’apartheid per sempre.  

Madiba ha lottato. È un guerriero. Un combattente. Il suo ex portavoce e ex ministro, oltre che compagno di cella a Robben Island e estensore del “lungo cammino verso la libertà” scritto in carcere, Mac Maharaj, dice che “finché combatterà, Madiba starà bene”. In un memorabile processo del 1964, Nelson e altri compagni di lotta furono condannati all’ergastolo e non alla pena capitale che tutti si aspettavano. Nell’aula di tribunale molti lì per lì non capirono: “A cosa li hanno condannati?”. Madiba, raggiante, si voltò urlando: “Alla vita, alla vita!”.

Adesso il vecchio guerriero combatte la sua ultima battaglia. Lui se ne sta andando, dovrebbe compiere 95 anni il 18 luglio. Già prima del ricovero appariva estenuato e molto malato, perseguitato dall’infezione polmonare che è la lunga coda della tubercolosi contratta nei 26 anni passati in galera, per lo più a Robben Island. In aprile lo abbiamo visto in tv, circondato dai massimi dirigenti sudafricani, seduto immobile su un divano, le gambe sul poggiapiedi, una coperta sulle ginocchia. Lo sguardo stanco ma fiero, il volto-icona di cera, l’espressione distante ma attenta. Torturato dai flash.

Adesso Mandela si trova in un letto d’ospedale, respira da solo (dicono) e le sue condizioni sono gravi. Un amico, intervistato da un quotidiano del Sudafrica, dice: “Lasciatelo andare”. Morirà “quando la famiglia lo lascerà andare, con dignità”. Come se un combattente non potesse morire, come se fossero ormai i familiari e quelli che lo amano, il suo popolo, a trattenerlo su questa terra. Come se lui avesse compiuto da tempo la sua opera, e l’arco della sua vita fosse così pieno di significato da non intaccarne più la perfezione.  

Il mondo attende che Madiba muoia. Ma lui, per la terza notte in ospedale, stringe i denti. È un’icona. Un monumento a se stesso. Un uomo che non si arrende. Il suo nome è sulla bocca di tutti i fedeli che pregano nelle chiese del Sudafrica. La sua battaglia l’ha già vinta. Che viva o che muoia, il suo nome incarna la libertà. E il nome non muore mai.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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