Robert Plant incanta Roma
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Robert Plant incanta Roma

Uno show spettacolare con citazioni dei Led Zeppelin

Sono passati trentaquattro anni dalla tragica morte di John “Bonzo” Bonham, che ha provocato lo scioglimento dei Led Zeppelin, il più importante e influente gruppo hard rock di sempre.

Il mito del Dirigibile non è mai tramontato, ma anzi è cresciuto ad ogni nuova ristampa da parte del chitarrista-manager Jimmy Page, come ha dimostrato l’entusiasmo che ha accompagnato, un mese fa, le versioni rimasterizzate dei primi tre album della band. Ormai sono sempre più scarse le possibilità di una loro reunion, dopo la parentesi del Celebration Day di Londra nel 2007, ma è Robert Plant, definito da Rolling Stone “il più grande cantante solista di tutti i tempi”,  a perpetrare il mito Zep nei suoi concerti insieme ai travolgenti Sensational Space Shifters.

Un terzo della scaletta è dedicato, infatti,  ai classici della band, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Ieri sera saltava immediatamente all’occhio lo scarto generazionale tra i ragazzini con la maglietta dei Led Zeppelin e i distinti signori di mezza età, che hanno vissuto da giovani l’epopea della band inglese, tutti uniti dal culto laico del rock nella splendida cornice della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica. Il concerto è stato aperto poco prima delle 21 dai North Mississippi Allstars, band rock'n'roll, con forti richiami blues, formata nel 1996 dai fratelli Luther e Cody Dickinson, figli di Jim Dickinson, leggenda musicale di Memphis. Quasi cinquanta minuti di ottima musica, perfetti per scaldare i tremila spettatori accorsi. 

Alle 22 fanno il loro ingresso i sei componenti dei Sensational Space Shifters: Justin Adams , John Baggott , Juldeh Camara,  Billy Fuller, Dave Smith e il barbuto Liam “Skin” Tyson. Un minuto dopo entra Robert Plant, in punta di piedi e a mani conserte, quasi ieratico. Lunghi boccoli e pizzetto canuti, camicia marrone e stivali da cowboy, pantaloni beige, sessantasei anni tra un mese, lo sguardo di uno che ne ha fatte e ne ha viste di tutti i colori, ma che conserva intatta la voglia di esibirsi sopra un palco, Plant viene accorto da una standing ovation e da assordanti grida di approvazione.

L’inizio è folgorante, con il primo omaggio ai Led Zeppelin, la magnetica No quarter, da Houses of the holy del 1973, in una versione completamente riarrangiata dai Sensational Space Shifters. I ritmi aumentano con la successiva Down to the sea, guidata da un pregevole giro di basso di Billy Fuller. Plant saluta il pubblico, si compiace per la grande luna che fa capolino sopra la struttura di Renzo Piano e presenta velocemente la band. In Spoonful, omaggio al grande Willie Dixon, il cantante si produce in alcune delle sue leggendarie urla e imbraccia l’asta del microfono come ai vecchi tempi, mentre Juldeh Camara lo accompagna con il suggestivo suono del violino africano a una corda. L’arpeggio di Liam Tyson alla chitarra introduce l’inconfondibile tema di Black dog, che dà la prima scarica elettrica alla serata.  

Anche questa versione è molto diversa dall’originale, una sorta di rock del deserto scandito da ritmi etnici, dove però Plant non rinuncia al famoso botta e risposta con il coro «Ah ah», che gli spettatori intonano con entusiasmo. L’ex leader degli Zep annuncia l’uscita a settembre dell’album  Lullaby and…the Ceaseless Roar, che conterrà undici brani, di cui nove scritti di suo pugno insieme alla band. In Rainbow si diverte a suonare il tamburo insieme ad altri tre componenti del gruppo, dando vita a una jam session di sapore orientale, quasi un omaggio all’album Physical Graffiti. Grande entusiasmo alle prime note di Going to California, secondo estratto della serata dall’iconico Led Zeppelin IV, che rivela un Plant rilassato, sorridente, in grado ancora oggi di incantare con la sua voce che, pur priva dell’estensione di una volta, è ancora straordinariamente espressiva. Divertente siparietto alla fine della canzone , quando uno spettatore gli urla in inglese "Tu sei Dio!", ricevendo come risposta dal cantante un laconico «Sì».

Dopo l’energica e tribale Enchanter, è la vota di un altro classico dei Led Zeppelin, il blues psichedelico Babe, I’m gonna leave you, proposta in maniere abbastanza fedele all’originale, con qualche piccola variazione in stile world music. La canzone viene cantata in coro dai tremila spettatori, che all’energico ritornello faticano a restare seduti al proprio posto. Durante Little Maggie, scelto come singolo del prossimo album, Plant presenta con dovizia di particolari ognuno dei suoi eccellenti musicisti, un bel gesto con il quale ha dimostrato di non sentirsi una prima donna, ma uno dei componenti del gruppo, nonostante un artista con il suo curriculum avrebbe tutti i titoli per farlo.

Siamo quasi alla fine, ed è bastato il primo accordo di Whole lotta love per far scattare come una molla il pubblico sotto il palco, con la security che non può fare molto per arginare la travolgente ondata di entusiasmo. Un improvviso e violento scroscio di pioggia rende il momento ancora più indimenticabile, che da solo vale ampiamente il prezzo del biglietto, grazie a un Plant in stato di grazia. Il bis, accompagnato da una pioggia implacabile, prevede la godibile Turn it up e la trascinante Rock & roll, che fa scattare l’effetto karaoke all’Auditorium. Plant sorride, ringrazia e saluta con un «Peace!» da hippy. Il concerto, durato un’ora e mezza, ha mostrato l’eccellente sound  dei Sensational Space Shifters, un suggestivo mix di folk, rock e trance, ma soprattutto la longevità dei brani dei Led Zeppelin. Plant ha regalato ai tremila spettatori della Cavea non solo una preziosa lezione di autentico rock& roll, ma anche di vita: se fai quello che ami, non invecchi mai.

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Gabriele Antonucci