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Via le medaglie al Maresciallo Tito

Nel giorno del ricordo per il dramma delle foibe restano le onorificenze per chi si è macchiato del sangue di migliaia di italiani

Sul sito del Quirinale alla voce «onorificenze» ancora oggi Broz Josip Tito risulta ufficialmente «decorato come Cavaliere di Gran croce al merito della Repubblica italiana», con l’aggiunta del Gran cordone, il più alto riconoscimento dato dal nostro Paese. Alla vigilia del 10 febbraio, Giorno del ricordo del dramma delle foibe e dell’esodo, è vergognoso che non sia stata ancora tolta la medaglia al maresciallo Tito. Il capo partigiano e presidente jugoslavo si è macchiato le mani con il sangue di migliaia di italiani deportati e infoibati da Gorizia, Trieste, in Istria, Fiume e Dalmazia, anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Se al «boia» delle foibe resta l’onorificenza suona terribilmente assurdo che la presidenza della Repubblica non abbia ancora consegnato la Medaglia d’oro al valor militare al gonfalone dell’ultima amministrazione italiana di Zara. La «città martire» sulla costa dalmata venne prima distrutta dai bombardamento alleati e poi «ripulita» dalla popolazione italiana, costretta a scegliere la via dell’esodo di fronte alle violenze di Tito. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi aveva concesso la medaglia nel 2001, ma i nazionalisti croati protestarono e l’Italia ha piegato la testa senza mai consegnarla agli esuli dalmati.

Il 2 ottobre 1969 durante la visita di Stato a Belgrado del capo dello Stato, Giuseppe Saragat, per finalizzare accordi commerciali con la Jugoslavia, venne concessa a Tito la più alta onorificenza italiana. Altre medaglie e riconoscimenti furono assegnati nel tempo a una ventina di suoi sgherri.

L’Unione degli istriani, una delle più rappresentative associazioni degli esuli costretti in 250 mila alla fuga dalle loro terre alla fine della seconda guerra mondiale, ha lanciato in occasione del 10 febbraio, Giorno del ricordo delle foibe, una campagna per «revocare dopo esattamente 50 anni le onorificenze dello stato italiano elargite al sanguinario maresciallo Tito». Sulla pagina Facebook dell’associazione, che ha sede a Trieste, capitale morale dell’esodo, ci si chiede se il premier «Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Giorgia Meloni, Maurizio Martina e Silvio Berlusconi» possano «essere contrari?».

Stessa domanda viene rivolta ai parlamentari dei principali partiti e ai governatori delle Regioni più influenti. Lo scorso ottobre una mozione del Consiglio regionale, che sollecitava il presidente del Friuli-Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga, a chiedere la revoca al governo è passata ampiamente, ma ha ottenuto anche dei voti contrari. I «niet» sono stati espressi dai consiglieri del Partito democratico Cristiano Shaurli, Roberto Cosolini, Igor Gabrovec e dall’esponente di Open sinistra, Furio Honsell. L’anno prima anche il Consiglio regionale del Veneto aveva votato, all’unanimità, una risoluzione presentata dal leghista Alberto Villanova che chiede al Parlamento di «revocare l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica a Josip Broz Tito».

L’aspetto paradossale della vicenda è che si può ritirare un’onorificenza per indegnità, ma solo se il personaggio insignito è ancora in vita. Nel 2012 è stato fatto con il presidente siriano Bashar Al Assad. Per Tito, che lanciò la pulizia etnica contro gli italiani, «non è ipotizzabile alcun procedimento essendo il medesimo deceduto» scriveva nel 2013 il prefetto di Belluno, a nome del governo, dopo essere stato interpellato dal primo cittadino di Calalzo di Cadore. Per questo motivo il sindaco, Luca De Carlo, eletto deputato con Fratelli d’Italia nell’ultima legislatura, ha stilato una proposta di legge che prevede di cambiare la norma. Si tratta di appena due righe: «In ogni caso incorre nella perdita della onorificenza l’insignito, anche se defunto, qualora si sia macchiato di crimini crudeli e contro l’umanità».

Per ora la proposta langue, ma De Carlo dichiara a Panorama: «Auspico che la Lega, che ha visto molti suoi esponenti rilasciare dichiarazioni a favore della revoca dell’onorificenza a Tito, supporti nel suo ruolo di governo la discussione in commissione prima e in aula dopo della nostra proposta di legge. È ora di passare dalle parole ai fatti».

Giorgio Napolitano e il suo successore Sergio Mattarella hanno sempre fatto orecchie da mercante rispetto allo scandalo delle onorificenze a Tito e ai suoi gerarchi. Per protesta, Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli istriani non ci sarà alla celebrazione del Giorno del ricordo delle foibe e dell’esodo al Quirinale fissato il 9 febbraio (si veda l’intervista a fianco). L’invito solenne agli esuli è il primo con Mattarella presidente della Repubblica. Un motivo in più per dare ascolto alla lettera inviata il 22 gennaio dal presidente dei Dalmati italiani nel mondo, Paolo Sardos Albertini. «Signor Presidente, sono maturi i tempi per la consegna della Medaglia d’oro al valor militare al gonfalone della città di Zara». Renzo de’ Vidovich, storico alfiere degli esuli dalmati, rivela a Panorama «che sono state contattate riservatamente le autorità croate. Non hanno espresso alcun veto alla consegna della medaglia già assegnata 17 anni fa». La lettera a Mattarella si conclude così: «Qualora volesse rendere nota la data del conferimento della Medaglia d’oro nella riunione al Quirinale del 9 febbraio, le saremo grati se, per le vie brevi, i suoi uffici ci confermassero questa eventualità». Ma dalla Presidenza ancora nessuna risposta.

Oltre a Tito, l’Italia ha decorato anche numerosi sodali del maresciallo jugoslavo. I più noti sono Mitja Ribicic, Franjo Rustja e Marko Vrhunec pure loro in bella mostra sull’Albo d’oro delle onorificenze del Quirinale. Dal 2013 il ministero degli Esteri, sollecitato dalla Presidenza del consiglio, avrebbe dovuto indagare su che fine avessero fatto. «Noi sapevamo che vivevano in Slovenia, ma nessuno ha mai mosso un dito» spiega Lacota. «L’ultimo è deceduto un paio d’anni fa, a quasi cent’anni, in una casa di riposo vicino all’ex confine di Trieste». Così, anche gli sgherri di Tito si sono portati le medaglie italiane nella tomba. Ribicic, Cavaliere di Gran croce al merito della Repubblica italiana, è stato al vertice della repressione titina in Slovenia dal 1945 al 1957. Poi è diventato primo ministro jugoslavo. Nel 2005 venne accusato a Lubiana di crimini di guerra, ma dopo 60 anni le prove erano sparite. L’ex ammiraglio Rustja, Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, fu braccio destro del comandante del IX Corpus titino, che occupò Trieste nel maggio 1945. Nei quaranta giorni di terrore sparirono molti italiani. Vrhunec è stato commissario politico della brigata partigiana Lubiana e capo di gabinetto di Tito dal 1967 al ’73, pure lui Grande ufficiale della nostra Repubblica.

Un’altra vergogna sono le sette vie italiane ancora dedicate a Tito. Basta andarle a cercare su Google Maps. A Parete, nel casertano, la strada intitolata a Tito si trova fra via Kennedy e via Martin Luther King. Vicino a Reggio Emilia la via si chiama proprio Maresciallo Tito. In Sardegna, a Nuoro, non vogliono cancellarla e a Parma campeggia sempre via Tito Josip Broz.
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Fausto Biloslavo