Italia, Paese dei casi irrisolti
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Italia, Paese dei casi irrisolti

Il delitto di via Poma rimarrà senza un colpevole. La Cassazione, dopo 24 anni, ha stabilito che non esiste un colpevole. Ecco perché in Italia, secondo un ex agente segreto, non siamo capaci più di investigare. I casi italiani senza colpevoli

"In Italia manca l’arte.Troppa scienza, troppa tecnologia, troppe prove virtuali. Sono queste che distruggono le inchieste e contribuiscono a far rimanere impuniti gli autori di delitti”. E ieri nelle aule della Corte di Cassazione di Roma, l'ennesima riprova: perizie e ricostruzioni virtuali "smontate" da controperizie e contro-ricostruzioni. Il risultato? E' sempre quello: il delitto irrisolto, senza colpevole.

E' finita così dopo 24 anni, anche il delitto di Simonetta Cesaroni, uccisa il 7 agosto 1990 con decine di coltellate, in via Poma, a Roma. L'unico imputato del delitto, l'ex fidanzato Raniero Busco che però in Corte d'Appello, nel 2012, era stato assolto "per non aver commesso il fatto". Un'assoluzione che è stata confermata ieri in Cassazione.       

Ma la cronaca in Italia sembra destinata a diventare sempre più spesso storia. Una storia, con la “S” maiuscola che molte volte non ha una soluzione.

Sono tanti infatti i misteri italiani irrisolti senza un mandante, senza colpevoli dove i poteri politici e militari si sono mescolati con la malavita, servizi segreti deviati e esponenti del Vaticano. Dal caso Calvi al caso Sindona; dal Piano Solo con il generale De Lorenzo a Gladio e i servizi segreti; dalla Loggia P2 al caso Mattei.

Ma a questi intricati fatti di cronaca diventati Storia senza soluzione, adesso se ne stanno aggiungendo altri, molto più semplici, che “rischiano” però di passare alla storia come i nuovimisteri irrisolti: il caso Garlasco e l’omicidio di Yara Gambirasio.

“Nel nostro Paese è scomparso l’investigatore da marciapiede – confessa a Panorama.it, Vittorio, ex agente dei Servizi segreti che per anni si è occupato di antiterrorismo – adesso le indagini sono basate esclusivamente sulla tecnologia, sulla scienza. Niente di più sbagliato. La tecnologia deve essere di supporto all’arte altriment,i si rischia di costruire solo prove virtuali che in ambito processuale vengono facilmente distrutte. E quando parlo di “arte”, mi riferisco all’uomo, all’intelligenza dell’investigatore, al suo intuito e alle sue capacità di stare tra la gente, per strada”.

Secondo l’ex agente, la maggior parte dei casi di cronaca che sono rimasti irrisolti in questi ultimi anni in Italia, sono stati solo oggetto di perizie e studi scientifici che in sede processuale sono risultati facilmente “smontabili” e non di vere e proprie indagini. Ovvero di ricostruzioni strutturate e logiche del delitto.

“Il caso del delitto di Garlasco ci mostrano come perizie tecniche contro perizie tecniche portino solamente alla chiusura di un iter processuale senza l’individuazione e la condanna del colpevole – continua Vittorio – probabilmente se ad investigare ci fosse stato un maresciallo come per la strage di Erba, forse anche per l'autore del delitto di Chiara Poggi si sarebbe arrivati all’ergastolo proprio come per Olindo e Rosa

“Quel caso è stato risolto da un solo maresciallo che invece di stare in caserma davanti ad un computer o di aspettare rilievi scientifici e tecnici ha cominciato a parlare con la gente, ha cercato di capire il contesto dove è maturata la strage – continua l’ex agente dei servizi – ed ha acquisito delle prove anzi “la prova” che ha portato alla condanna dei due autori della strage: ergastolo. Davanti ad una prova acquisita sul campo non c’è la possibilità che quest’ultima possa essere smontata da perizie, se pur scientifiche, che però sono basate solo su dati e informazioni virtuali”

E in questo modo potevano essere già stati chiusi anche i casi di Perugia e Garlasco.
“Il caso Garlasco si è “giocato” processualmente quasi tutto sul computer del ragazzo: se questo fosse acceso o spento, se lui lavorasse o meno durante l’orario dell’omicidio- continua - ma probabilmente agli investigatori sarebbe bastato ‘vivere’ tra gli abitanti del quartiere dove è stata uccisa Chiara Poggi, camminare sui quei marciapiedi, parlare con gli abitanti per farsi dire chi è entrato in quella casa. E avremmo saputo senza bisogno di alcuna perizia chi era l’assassino e l’ora precisa del delitto. Stessa identica cosa per il caso di Perugia”.

“Lo spionaggio è l’arte antica dell’investigatore che purtroppo è stata dimenticata – prosegue – ma che è e rimane l’arme vincente per risolvere un caso: da quelli più semplici a quelli molto più complessi. Purtroppo a rovinare le indagini sono state due cose: la tecnologia e i pentiti. Gli investigatori, con l’arrivo della figura del pentito, hanno smesso di “spiare” e si sono limitati a verificare. Niente di più sbagliato. Inoltre, oggi a distruggere definitivamente un’ inchiesta e a compromettere il risultato di un processo c’è il magistrato che ha la presunzione di mettersi a fare l’investigatore. Ecco perché i casi non si risolvono” .

Ma secondo Vittorio, in Italia è sbagliato anche l’intero sistema, l’organizzazione investigativa, che contribuisce a creare caos e a rendere “misteriosi” omicidi dalle dinamiche banali.

“In Italia devono essere ben distinti i ruoli. Ci deve essere il poliziotto investigatore e quello amministrativo – continua – e l’investigatore deve stare in strada, in mezzo alla gente a spiare. Deve essere solo questo il suo lavoro”.

Diverso invece il caso di Yara Gambirasio.

“Nell’inchiesta sull’omicidio della piccola Yara manca proprio il metodo – conclude l’ex agente dell’intelligence - e si rischia che un tecnico, uno scienziato capace di “costruire” una perizia o uno studio riesca a creare un colpevole o a far assolvere il vero responsabile di quell’atroce assassinio. Risultato? Che giustizia non verrà mai fatta e che probabilmente diverrà uno degli ormai molteplici gialli irrisolti”.
                  

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Nadia Francalacci