L'impeachment di Trump impiccia soprattutto Biden
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L'impeachment di Trump impiccia soprattutto Biden

La ricostruzione si quanto accaduto negli Usa per il presidente che in realtà mette nei guai il rivale

overo Donald Trump. Ad ascoltare i media, di qua e di là dall’Atlantico, il presidente americano sembra un uomo finito, praticamente fritto. L’impeachment, ovvero sia la sua messa in stato d’accusa, sembra già stabilito e la maggioranza di giornali e tv ormai dà per assodati i presunti illeciti alla base dello scandalo. Gli stessi repubblicani vengono descritti come pronti ad abbandonare la Casa Bianca che affonda. Ma è davvero così? Proviamo a ricostruire la vicenda, raccontandola anche in quei (significativi) dettagli che il coro della stampa anti-Trump si ostina a non voler vedere. E a non raccontare.

Una strada ancora lunga

La prima «verità rivelata» da negare è che Trump sia vicino all’impeachment. Davanti al Congresso americano, lo scorso 13 novembre, sono cominciate solo le audizioni per decidere se aprire la messa in stato d’accusa del presidente. Ma non c’è stato ancora alcun voto. L’indagine è stata chiesta alla fine di settembre dai vertici del Partito democratico alla Camera dei rappresentanti, cioè una delle due ali del Congresso (l’altra è il Senato). Per  provare le accuse, i democratici hanno chiamato in causa 15 testimoni, le cui audizioni finiranno entro Natale. A quel punto è previsto un doppio passaggio elettorale: prima voterà la Camera e poi il Senato. Trump potrà essere costretto alle dimissioni soltanto se i democratici otterranno due sì.

I fatti, le inchieste

La richiesta d’impeachment è stata depositata da Nancy Pelosi, presidente democratica della Camera. I democratici sostengono che Trump abbia illecitamente utilizzato i suoi poteri presidenziali per interessi personali, cioè mettere in moto una «macchina del fango» tesa a screditare un insidioso avversario politico. Alla base c’è un fatto vero, accaduto quest’estate: una telefonata fra Trump e Voldymyr Zelensky, il comico eletto presidente ucraino nell’aprile scorso con il 73 per cento dei voti. Secondo l’accusa, in quella telefonata il presidente avrebbe condizionato ricchi aiuti militari a Kiev alla riapertura di un’inchiesta da parte della giustizia ucraina su Hunter Biden. Hunter è il figlio di Joe Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama, che dallo scorso aprile corre come principale candidato alle primarie del Partito democratico per le presidenziali del novembre 2020 (e ora si trova contro Michael Bloomberg, che ha appena annunciato di voler partecipare alla stessa competizione). L’inchiesta della magistratura di Kiev riguardava Biden Jr e il suo ruolo nel consiglio d’amministrazione della Burisma, una controversa azienda petrolifera ucraina, ma era stata frettolosamente chiusa nel 2016, senza risultati, anche per le dimissioni imposte dal precedente governo ucraino al magistrato che guidava le indagini.

Tutto parte da una denuncia anonima

Il cosiddetto «Ucrainagate» è emerso a metà settembre sui giornali americani grazie alla denuncia, depositata il 12 agosto, da parte di un anonimo: probabilmente un funzionario dei servizi segreti in organico alla Casa Bianca, che forse era nella Sala ovale durante una telefonata intercorsa lo scorso 25 luglio fra Trump e Zelensky. L’identità della fonte viene protetta dalle norme sul «blow-whistle» (cioè «fischietto»), che negli Stati Uniti tutelano da rappresaglie chi denuncia illeciti nelle aziende private e nella pubblica amministrazione. 

Le accuse dei «democrat» e i giornali

La denuncia anonima è stata provvidenzialmente girata ai giornali d’opposizione, che subito si sono trasformati in grancassa. Il 13 settembre il Wall Street Journal ha rivelato l’esistenza della telefonata Trump-Zelensky. Il 17 settembre il New York Times ha aggiunto che Trump, pochi giorni prima della telefonata, aveva deciso il blocco di 400 milioni di aiuti militari all’Ucraina, per poi rimuoverlo l’11 settembre. I democratici avanzano a Trump anche un’altra accusa: il presidente avrebbe fatto pressioni indebite su Joseph Maguire, capo dell’Agenzia antiterrorismo, inducendolo a bloccare la denuncia del whistle-blower per tre mesi, da metà giugno al 12 agosto. Trump avrebbe poi «premiato» Maguire, mettendolo a capo della National Intelligence.

Il contenuto della telefonata

Nella trascrizione della telefonata, cinque pagine depositate agli atti del Congresso, si legge che Trump avrebbe riferito a Zelensky di «voci insistenti» in base alle quali nel 2016 Joe Biden, quando ancora era vicepresidente (lo è stato dal gennaio 2009 al gennaio 2017), sarebbe intervenuto sulle autorità ucraine per fare chiudere le indagini sul figlio, e avrebbe ottenuto la cacciata del capo degli inquirenti, il procuratore generale Viktor Shokin, accusandolo di essere «troppo morbido nella lotta alla corruzione». Nella telefonata, Trump dice che «lo stesso Joe Biden va in giro vantandosi di aver bloccato l’inchiesta» e che questo è stato «un vero peccato» perché «il capo degli inquirenti ucraini era proprio un eccellente investigatore».

La difesa del presidente

Trump contesta le accuse e nega di aver fatto pressioni: «Sono solo bufale», giura, «e la richiesta di impeachment è solo il proseguimento della più grande caccia alle streghe della storia americana. Nessun presidente è stato mai trattato così male». Lo stesso Zelensky ha affermato di non avere ricevuto «nessuna pressione» da Trump.

Il paradosso: l’avversario azzoppato

Il paradosso dell’Ucrainagate contro Trump è che crea grave imbarazzo tra i democratici, perché a uscirne male è soprattutto Joe Biden. È un dato di fatto, del resto, che l’ex vicepresidente abbia fatto pressioni sul precedente governo ucraino, guidato da Petro Poroshenko. Risulta dalle cronache del 2016 che Biden minacciò di congelare un miliardo di dollari di aiuti americani all’Ucraina se il governo di Kiev non avesse licenziato Shokin, cosa che poi avvenne il 29 marzo di quell’anno. Lo stesso Biden se n’è poi vantato pubblicamente nel gennaio 2018, in un convegno organizzato a Washington dalla rivista Foreign Affairs. Biden ha così descritto il suo incontro con Poroshenko: «Lo guardai negli occhi e dissi “Io parto tra sei ore, e se il procuratore Shokin non è stato licenziato non avrete i soldi”. Beh, quel figlio di puttana è stato licenziato». È un altro fatto incontrovertibile che Hunter Biden sia entrato nel consiglio della Burisma nell’aprile 2014, proprio mentre suo padre, da vicepresidente, aveva la delega a occuparsi di Europa. E sulla nomina di Hunter grava più di un’ombra.

Chi è Biden Jr e cos’è la Burisma

Hunter Biden, 49 anni, è la «pecora nera» della famiglia. Ha alle spalle una modesta carriera da consulente legale e da lobbista. Nel 2014, a 45 anni, è stato congedato con disonore dai riservisti della Marina perché trovato positivo al test della cocaina. Poco dopo quel congedo, Hunter è entrato nel consiglio della Burisma Holdings, la più grande compagnia ucraina di gas, e se n’è andato nell’aprile 2019 quando suo padre ha annunciato la candidatura alle primarie.

Pur se del tutto privo di esperienza nell’energia, dalla Burisma Hunter ha ricevuto 50 mila dollari lordi al mese per cinque anni (cioè almeno 3 milioni). E se ancora non è chiaro quali fossero i compiti di Hunter nella Burisma, si sa perfettamente che nel marzo-aprile 2014 la società cercava rapporti positivi con gli Stati Uniti perché l’Ucraina, spaventata dall’invasione della Crimea da parte di Mosca nel febbraio 2014, voleva spostarsi dall’orbita russa a quella occidentale.

Cinque anni fa, del resto, l’amministrazione Obama era molto attiva in Ucraina, e Joe Biden era in primissima fila per cercare di attrarla verso l’orbita Nato. Sulla Burisma c’è un’ombra in più: due mesi prima dell’ingresso di Biden Jr nel suo consiglio d’amministrazione, la magistratura inglese aveva sequestrato 23 milioni di dollari in un conto londinese della società ucraina, accusandone i vertici di riciclaggio.

Come andrà a finire

La procedura per l’impeachment è prevista dalla costituzione americana e prevede la messa in stato d’accusa e la possibile decadenza di un presidente per «tradimento, corruzione e altri gravi reati».

Spetta alla Camera dei rappresentanti istruire il processo, ed è in questa fase che ci troviamo, visto che il procedimento è iniziato il 31 ottobre, quando la stessa Camera ha avallato l’indagine nei confronti di Trump con 232 sì e 139 no. In questa parte del Congresso, però, i democratici sono la maggioranza: su 435 seggi, ne hanno 235 contro i 199 repubblicani (c’è un indipendente). La Camera dovrà poi votare a maggioranza assoluta se rinviare Trump al giudizio del Senato. Questo passaggio arriverà tra il 16 e il 20 dicembre e ai democratici, ancora una volta, basterà la maggioranza assoluta. A quel punto il Senato dovrà istruire il processo vero e proprio. Per la decadenza del presidente, però, qui servirà la maggioranza di due terzi dei 100 senatori, cioè almeno 67. Pertanto l’eventualità di far decadere Trump è remota, visto che i senatori repubblicani sono 53, i democratici 45 e gli indipendenti due.

Mario Del Pero, docente di politica internazionale alla mitica facoltà parigina di Sciences politiques, conferma che Trump non rischia nulla: «L’elettorato repubblicano è schierato con lui, visto che il tasso medio d’approvazione dell’operato presidenziale è ai massimi, al 43-45 per cento. E dall’avvio dell’impeachment esce male soprattutto Joe Biden: perché è quantomeno sconcertante che per cinque anni suo figlio abbia fatto lobby per una compagnia ucraina. Ed è emblematico di quel senso d’impunità del mondo politico statunitense che ha dato forza proprio a Trump». 

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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