Petrolio e banditi: i tanti volti del caos libico
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Petrolio e banditi: i tanti volti del caos libico

L’allarme lanciato dall’ad di ENI Paolo Scaroni evidenzia la criticità della situazione politica e sociale libica e l’incapacità del governo di Tripoli di porvi rimedio. Ecco perché la Libia non è più un partner energetico affidabile per l’Italia

di Rocco Bellantone

per www.lookoutnews.it

Il giorno dopo le dichiarazioni allarmate dell’amministratore delegato di ENI Paolo Scaroni sulla precarietà delle forniture garantite dalla Libia all’Italia attraverso il gasdotto Greenstream, resta incerto lo stato della sicurezza nel terminal di Mettilah. 

Stando alle ultime notizie, un gruppo di uomini armati appartenenti alla minoranza berbera Amazingh, da dieci giorni asserragliati in quest’area, avrebbe imposto la chiusura dell’impianto. A comunicarlo è stato aFrance Presseil portavoce dei manifestanti, Younes Naniss, aFrance Presse: “Abbiamo ordinato all’amministrazione di interrompere le forniture di gas all’Italia. La chiusura del gasdotto richiede tempo per motivi tecnici. Sarà effettiva tra qualche ora”.

In attesa di capire come si evolverà la situazione, resta massima l’allerta attorno all’impianto situato vicino la città berbera di Zwara, cento chilometri a ovest di Tripoli, gestito da ENI e dalla compagnia di stato libica NOC (National Oil Company), da dove giornalmente partono circa 17 milioni di metri cubi di gas verso Gela.

Qui dal 26 ottobre vanno avanti le proteste di una trentina di uomini della comunità Amazingh. I berberi, che in tutto il Paese rappresentano il 10 per cento della popolazione, chiedono una maggiore rappresentanza nel nuovo corso libico del post Gheddafi. Per anni sono stati perseguitati dal regime del Colonnello, hanno svolto un ruolo chiave durante le rivolte del 2011 e adesso rivendicano ciò che a loro modo di vedere gli spetta di diritto: il riconoscimento della loro lingua e della loro cultura nella nuova Costituzione e molti più seggi dei soli due concessi nel Comitato Costituzionale. I colloqui di queste settimane con i rappresentanti del governo di Tripoli e del Congresso Generale Nazionale non sembrano aver sortito però alcun effetto. 

Ciò che sta accadendo in questo angolo di Libia è solo uno dei molti sintomi della degenerazione della “primavera libica”: un processo irreversibile che sta progressivamente erodendo le risorse economiche del Paese consegnando di fatto il suo nuovo corso politico a uno stato di perenne instabilità. Gli ultimi picchi della crisi si sono concentrati nell’ultimo mese, con il rapimento lampo del primo ministro Ali Zeidan il 10 ottobre e, venti giorni più tardi, con la separazione della regione della Cirenaica dal governo centrale. Due episodi eclatanti, di fronte ai quali Tripoli si è dimostrata impotente nel fornire risposte concrete. Il 3 novembre il parlamento ha decretato lo scioglimento della “Sala Operativa dei Rivoluzionari Libici”, riconoscendo nel gruppo l’autore materiale del rapimento del premier. E pochi giorni fa ha provato ad arginare le spinte separatiste della Cirenaica sostituendo i vertici della sicurezza di Bengasi. Nonostante l’intervento, nella Cirenaica la situazione è difficilmente recuperabile, considerato che il governo dovrà fare fronte a una “doppia scissione”: la prima del 29 ottobre, proclamata da Ahmad Al Zubair Al Senussi, nominato alla guida del Consiglio di Transizione della Cirenaica; la seconda del 3 novembre, guidata da Ibrahim Jadran, ex dirigente della Guardia degli Impianti Petroliferi, postosi alla guida dell’Ufficio Politico della Cirenaica.  

Questo clima di instabilità si riversa negativamente sul settore petrolifero, l’unica risorsa a cui in questi anni di guerre e rivoluzioni mancate si è aggrappato il popolo libico. Le manifestazioni di protesta da parte delle minoranze etniche, gli scioperi dei lavoratori che rivendicano salari più alti e le strisce di attentati terroristici hanno incrinato progressivamente la fiducia delle compagnie straniere, mettendo a rischio gli investimenti sia dei partner storici (vedi l’Italia) che di quelli arrivati dopo la destituzione di Gheddafi (la Francia in primis). Le proteste non riguardano solo l’impianto di Mettilah, ma anche quello di Al Hariqa a Tobruq e di Al Sharara gestito, dalla NOC e dalla spagnola Repsol. Qui i tuareg provenienti da Ubari (Awbari), nel Fezzan, da giorni hanno bloccato la produzione reclamando codici identificativi nazionali (simili al nostro codice fiscale) e il riconoscimento della loro lingua nella futura Costituzione. Anche loro rivendicano un ruolo nel nuovo corso libico come gli amazingh di Zwara, che armi in pugno in soli dieci giorni hanno creato non pochi danni ad ENI. 

Sullo sfondo del caos libico serpeggiano impuniti migliaia di miliziani, che dopo aver contribuito ad abbattere Gheddafi sembrano ora decisi a continuare a fare politica con le armi. Si tratta di gruppi tribali, di minoranze etniche e religiose o, molto più semplicemente, di banditi, predatori e contrabbandieri, come il famoso Mokthar Belmokhtar, la “primula rossa d’Africa” che qualche mese fa ha colpito nell’impianto di In Amenas, in Algeria, e promette adesso nuove razzie in tutto il Nord Africa. Tutti questi soggetti dominano il peggior esperimento politico tentato dagli occidentali negli ultimi anni: quello di far cadere un dittatore, per altro loro “amico” fin a poco tempo fa, senza però sapere chi avrebbe però preso il suo posto.     

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