La leggenda della cassaforte sparita dal covo di Riina
ANSA/GIORGIO BENVENUTI
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La leggenda della cassaforte sparita dal covo di Riina

Ecco la foto che dimostra come la cassaforte non sia stata smurata nonostante il procuratore aggiunto di Palermo Teresi sostenesse il contrario

Il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi nella requisitoria dell’11 dicembre, nel processo stralcio sulla presunta trattativa Stato-mafia, in cui ha chiesto nove anni di carcere per Calogero Mannino, unico imputato nell’inchiesta palermitana perché giudicato con il rito abbreviato, ha dichiarato che "la cattura di Riina ha seguito un altro percorso dalla versione ufficiale di Mori".

Il dottor Teresi, sostenendo che l’arresto del boss sia stato in realtà uno "specchietto per le allodole" in cui Vito Ciancimino e quindi, "per lui, Provenzano, ha consegnato Riina, in nome della trattativa", ha anche affermato "che chi lo ha catturato (il capitano Ultimo ndr) non poteva impossessarsi delle sue carte, perché quelle carte erano dirompenti per l’esistenza stessa dell’organizzazione", rimarcando che quei documenti non sono mai stati trovati "in quei venti giorni di mancata perquisizione del covo”.

Sempre nella requisitoria contro l’ex ministro democristiano, il dottor Teresi ha detto che "qualcuno entrando in quella villa ridipinge le pareti per far scomparire ogni traccia dell’esistenza di Riina: smura addirittura una cassaforte dal muro in cui era collocata e se la porta via per intero senza neanche aprirla e controllare cosa ci fosse dentro". 

La foto che vi mostriamo è stata scattata il 25 maggio del 2005 e si possono vedere l’avvocato Piero Milio, scomparso prematuramente nel 2010, all’epoca legale del prefetto Mario Mori, nel “covo di Riina” mentre indica la cassaforte, proprio quella citata dal dottor Teresi, perfettamente murata e integra.


Mancata perquisizione del covo di Rina

La sentenza sulla mancata perquisizione del covo di Rina, è del 20 febbraio 2006, ha assolto i due ufficiali dell’Arma Mario Mori e Sergio De Caprio perché “il fatto non costituisce reato”. Nonostante sia rimasta inappellata dalla procura di Palermo, continuano le suggestioni e insinuazioni del “tribunale dell’opinione pubblica” sulla decisione di non perquisire il nascondiglio del boss, calpestando così la sentenza, divenuta irrevocabile da otto anni oltre a delegittimare i principi fondativi del diritto e della magistratura.

Nelle motivazioni di tale sentenza i giudici, scrivono, che nel covo del boss, quando gli investigatori procedettero alla perquisizione trovarono “nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall'adiacente vano bagno, risultò vuota”. Quindi non era affatto stata smurata, come ha sostenuto il dottor Teresi l’11 dicembre scorso.

Inoltre sulla mancata perquisizione del nascondiglio di Riina, i giudici della terza sezione penale del tribunale di Palermo sono sicuri che “l’opzione investigativa comportava un rischio che l'Autorità Giudiziaria (Gian Carlo Caselli) scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria (Mori e Ultimo), direttamente operativi sul campo" e  che "l’Autorità Giudiziaria, nell'eccezionalità dell'evento che vedeva in stato di arresto il capo della struttura mafiosa e che poteva costituire un'occasione unica ed irripetibile di assestare un colpo forse decisivo all'ente criminale, operò una scelta anch'essa di eccezione, nell'ambito della propria insindacabile discrezionalità”.

Arresto di Riina, non è frutto di trattativa

L’ipotesi accusatoria della procura di Palermo, che sostiene che Riina è stato consegnato, da Provenzano, per rispettare il patto stipulato con Mori, viene cassata già dai giudici nel 2006, che scrivono, che "è accertato come Riina non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all'intuito investigativo del capitano De Caprio" e che "i fatti provati hanno acconsentito di accertare che il covo venne individuato soltanto alle attività investigative del Ros" escludendo "che Riina venne catturato grazie ad una "soffiata" dei suoi sodali".

L’estensore della sentenza evidenzia anche i progetti elaborati dal Provenzano di sequestrare o uccidere il capitano Ultimo, che appaiono in contraddizione con la tesi sostenuta dai pm palermitani della consegna di Riina, da parte del boss corleonese al Ros.

I giudici smentiscono anche l’ipotesi della "trattativa", sostenendo che l'iniziativa di Mori era "finalizzata solo a far apparire l'esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a "cosa nostra" e sull'individuazione dei latitanti".


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Anna Germoni