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La politica petrolifera di Donald Trump

L'accordo sugli oleodotti canadesi e gli incentivi alle rinnovabili rendono già possibile per gli Usa l’affrancamento dall'Opec

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Nel 2015 l’agenzia governativa americana Energy Information Administration (EIA) ha registrato una dipendenza diretta degli Stati Uniti da Paesi esteri per l’importazione di petrolio e di suoi derivati pari al 24% del consumo nazionale totale (dato calcolato al netto delle esportazioni). Il 31% delle importazioni totali, invece, provenivano da Paesi dell’OPEC. Di fronte a questo scenario, il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato più volte di essere fortemente intenzionato a far raggiungere al più presto agli Stati Uniti l’autosufficienza rispetto al cartello dei Paesi esportatori di petrolio.

 L’analisi di differenti fattori induce a ritenere che tale ambizione sia possibile da concretizzare per gli USA. Le riserve naturali di shale oil, le importazioni da Messico e Canada – Paesi che non fanno parte dell’OPEC – e lo sfruttamento di energie rinnovabili – su cui la nuova Amministrazione continuerà a puntare nonostante l’insensibilità di Trump verso i temi ambientali – giocano infatti a favore del progetto del tycoon newyorchese.

 

I vantaggi dello shale oil

Le maggiori aspettative sono poste sulle potenzialità dello shale oil. A favorirne l’impiego è il recente abbattimento dei suoi costi di produzione fino al 40%, il che ha permesso alle compagnie americane di “sopravvivere” al crollo del prezzo del greggio al barile che era stato deciso dall’Arabia Saudita al vertice OPEC di Vienna del 2014 con il mantenimento dei livelli standard di produzione nonostante il calo della richiesta. Nell’arco degli ultimi due anni, fino al vertice OPEC di Vienna dello scorso 30 novembre, l’EIA ha infatti registrato un complessivo aumento dell’estrazione di shale oil tale da permettere agli Stati Uniti di strappare all’Arabia Saudita il primato mondiale di maggior produttore di petrolio e gas naturali.

 Anche in ottica futura, l’andamento dello shale oil negli USA è destinato ad attestarsi su trend positivi. Ciò sarà dovuto non solo agli investimenti effettuati dal governo americano ma anche a quelli fatti da alcune delle principali compagnie petrolifere statunitensi. Una delle ultime in ordine di tempo a muoversi in questa direzione è stata la ExxonMobil, il cui ex amministratore delegato è Rex Tillerson, scelto da Trump come nuovo segretario di Stato.

 Di contro, un elemento di relativa importanza che può rallentare l’ascesa dello shale oil risiede nella tecnica di raffinazione legata alla natura del petrolio stesso. Il petrolio estratto negli Stati Uniti è il cosiddetto sweet crude oil, caratterizzato da un basso contenuto di zolfo. Il problema con questo tipo di petrolio è che le raffinerie presenti sul territorio americano sono congeniate per la lavorazione di un petrolio con maggiore densità e contenuto di zolfo, il cosiddetto sour crude oil, importato da Paesi esteri: alcuni sono vicini, come il Canada; altri molto lontani, come l’Arabia Saudita.

 Per questo motivo, sono proprio le estrazioni dalle sabbie bituminose canadesi, oggi caratterizzanti circa il 40% dell’import totale statunitense, a rivestire un ruolo determinante nella corsa all’indipendenza energetica degli Stati Uniti dall’OPEC. Ciò suggerisce che le importazioni statunitensi dal Canada saranno destinate ad aumentare nei prossimi anni. Uno scenario che la Canadian Association of Petroleum Producers (CAPP) aveva giù previsto nel 2015, quando aveva ipotizzato un aumento della produzione di petrolio addirittura fino al 2030 proprio per venire incontro principalmente alle richieste degli Stati Uniti.

 Oggi queste previsioni possono essere viste anche con maggiore favore alla luce del nuovo vertice OPEC dello scorso novembre 2016 durante il quale, come detto, è stato posto un freno alla produzione di greggio per moderare l’offerta e, di conseguenza, far risalire il prezzo al barile.

 Un segnale di distensione al Canada Trump lo ha già lanciato pochi giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, dando il via libera per far ripartire i lavori di completamento della pipeline dell’oleodotto Dakota Access e per rinegoziare i termini per la costruzione dell’oleodotto Keystone XL, entrambe opere temporaneamente fermate dal suo predecessore Barack Obama a causa del loro impatto negativo sull’ambiente.

 

La questione ambientale e i rapporti con il Messico

In effetti, è noto che l’estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose comporti potenziali rischi ambientali, il che mette gli Stati Uniti non solo contro le associazioni ambientaliste ma, soprattutto, contro gli accordi raggiunti dalla comunità internazionale – e dunque anche da Washington – alla Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015 (Cop21).

In questo quadro, restano da decifrare i rapporti degli Stati Uniti con il Messico, e non solo in riferimento all’intenzione di Trump di imporre delle tassazioni sulle importazioni messicane per pagare i lavori di completamento del muro al confine tra i due Paesi.

Pemex, la principale compagnia petrolifera di Stato messicana, già nel 2016 (dunque prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca) ha registrato una riduzione della sua dipendenza dalle importazioni degli Stati Uniti, avendo spostato una fetta delle proprie esportazioni verso i mercati di Europa e Asia. La situazione è in continua evoluzione ed è probabile che alla conferenza Energy Mexico 2017, tenutasi dal 31 gennaio al 2 febbraio a Città del Messico, il governo messicano abbia iniziato a “guardarsi intorno” in cerca di nuovi partner soprattutto a Oriente (Cina) e nel Golfo Persico (Arabia Saudita).

 

Le energie rinnovabili

Infine, come detto le energie rinnovabili offrono buoni spunti di ottimismo a Trump sia sul piano della ricerca dell’indipendenza energetica che per quanto concerne la creazione di nuovi posti di lavoro. Una legge approvato dal Congresso nel dicembre del 2016 offre incentivi economici a chi investe nel settore attraverso una estensione di cinque anni sul credito d’imposta nei settori di energia solare, eolica, biocarburanti, veicoli elettrici ed efficienza energetica. Il trend negli Stati Uniti è positivo già da qualche anno, come dimostra il progressivo aumento di installazioni di pale eoliche registrato dagli ultimi report dell’American Wind Energy Association.

Al netto delle tensioni politiche su cui Trump ha calcato la mano nelle ultime settimane (in particolare con il Messico e, soprattutto, con l’Iran), l’insieme di questi elementi fa credere che l’acquisizione di una forte, se non addirittura totale, indipendenza energetica degli Stati Uniti dai Paesi OPEC rappresenta un progetto non più di lungo ma di medio-termine a cui l’America può guardare con fiducia.

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Riccardo Florio