Kabul: mensa Nato vietata agli italiani?
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Kabul: mensa Nato vietata agli italiani?

La Difesa taglia i costi della mensa a Kabul. Lo dice l’Espresso ma fonti militari negano

I tagli alle spese militari non risparmiano le missioni all’estero e alle decine di militari italiani assegnati al comando operativo alleato in Afghanistan sarebbe stato precluso l’accesso a una delle due mense presenti nell’area dell’aeroporto.

La notizia è stata diffusa la scorsa settimana da L’Espresso che ha raccontato di un cartello appeso all’esterno di una mensa utilizzata dai militari alleati con la scritta in inglese e italiano “I soldati italiani qui non possono più mangiare”.

Nel breve articolo, che ha sollevato anche un‘interrogazione parlamentare, si precisa che per i soldati italiani resta “disponibile solo una tavola calda gestita da un contractor asiatico, molto più economica e spesso criticata per l’igiene degli ingredienti, che ha già costretto qualche graduato a marcare visita”.

L’aspetto più grave della vicenda riguarda il totale e penoso silenzio del Ministero della Difesa, dello Stato maggiore Difesa e del comando italiano in Afghanistan dai quali non è uscita neppure una parola o una riga di comunicato ufficiale per confermare o smentire questa notizia. Fonti ben informate hanno spiegato a Panorama.it che la situazione delle mense di Kabul è un po’ diversa da come è stata raccontata.

Innanzitutto il comando situato al Kabul International Airport dispone davvero di due mense definite Dining Facility (DFAC) 1 e DFAC2, entrambe gestite dalla società americana Kellog Brown Root (KBR).

Nella prima mensa sia il menù sia la fornitura dei prodotti alimentari, esclusivamente di provenienza europea, sono gestiti dalla società olandese BS Kopcke Global. Nella seconda il menù è gestito dalla Defence Logistic Agency (DLA ) statunitense, mentre la fornitura dei prodotti alimentari, di provenienza statunitense, è curata dalla società americana Supreme.

Si tratta quindi di aziende occidentali, non asiatiche anche se il personale che opera all’interno delle mense è assunto dalla KBR prevalentemente in India, Pakistan e Sri Lanka.

I militari italiani consumano i pasti presso la DFC1 ma possono usufruire anche della DFC2 se impossibilitati a mangiare presso la prima mensa come ad esempio quando è chiusa, la domenica mattina. In questo caso l’amministrazione italiana paga i singoli pasti consumati dal nostro personale alla NATO Support Agency (NSPA).

Secondo la fonte il cartello citato nell’articolo, esposto temporaneamente nei pressi dell’ingresso della seconda mensa, era esclusivamente in lingua italiana ed era stato affisso dallo stesso personale italiano allo scopo di rinnovare a tutti gli aventi diritto la disposizione di recarsi alla prima mensa, se non diversamente possibile. Vi sono in realtà alcune nazioni della Nato al cui personale è effettivamente preclusa la possibilità di mangiare alla DFAC2 ma tra questo non c’è l’Italia, solo Belgio, Bulgaria e Turchia.

Infine la stessa fonte sostiene che nessun militare italiano è dovuto ricorrere a cure mediche/ospedaliere per problemi gastro-intestinali riconducibili ai pasti forniti alla mensa. Restano però aperti alcuni interrogativi. Perché su un tema tutto sommato marginale rispetto alla tragedia del conflitto afghano si trovano solo fonti disponibili a parlare sotto anonimato? Possibile che nessuno dei generali a tre e quattro stelle così ben retribuiti dal contribuente italiano senta il dovere o abbia il coraggio di esporsi ufficialmente raccontandoci come stanno le cose nelle mense militari a Kabul? In fondo su un tema come il rancio il silenzio non può essere certo giustificato dalla necessità di non rivelare segreti militari.

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Gianandrea Gaiani