Iraq: cristiani in armi
Fausto Biloslavo
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Iraq: cristiani in armi

Con la croce al collo, giovani iracheni cacciati dall’avanzata dello Stato islamico hanno imbracciato le armi. Per difendere comunità e luoghi sacri

Da Bakuba (Iraq) 

Il ragazzone con barbetta e muscoli da palestrato tira fuori da sotto la mimetica il rosario bianco appeso al collo e bacia la piccola croce. È un cristiano che ha deciso di non porgere più l’altra guancia dopo che gli uomini del Califfato l’hanno brutalmente cacciato da casa sua, in Iraq, assieme a 120 mila confratelli.

Attorno a lui una dozzina di giovani in armi si prepara a pattugliare Bakufa, un villaggio cristiano abbandonato sulla linea del fronte, nel nord del paese. Sono tutti volontari di Dwekh Nawsha («Pronti al sacrificio»), la milizia nata l’11 agosto dopo la caduta di Mosul e l’esodo dei cristiani verso il Kurdistan. Non è l’unico gruppo armato sul territorio iracheno: i miliziani nel nome di Cristo sono qualche centinaio, ma le reclute pronte ad arruolarsi per liberare la piana di Ninive dagli jihadisti sarebbero migliaia. «Decine sono pronti a partire dall’Europa per venire a combattere. E so che devono arrivare anche istruttori militari italiani. Ma perché armate e addestrate solo i curdi? Noi siamo cristiani come voi» lamenta Athra Mansoor Kado,  ex insegnante. Giubbotto antiproiettile e kalashnikov, è il vicecomandante di un’altra milizia assira, che presidia la cittadina di Al Qosh non lontano dal fronte.

I cristiani in armi procedono in fila indiana lungo i viottoli di Bakufa, dove prima dell’offensiva dello Stato islamico vivevano 500 famiglie. Il villaggio è stato riconquistato dai peshmerga, i combattenti curdi, ma la prima linea è vicina. Sopra un portone di ferro, la croce color ocra segna l’ingresso sprangato della chiesa di San Giorgio. I miliziani bloccano la strada sul retro con il campanile alle spalle. Poi entrano nel piccolo cimitero ricavato nel cortile della chiesa. «Abbiamo salvato le croci e gli antichi manoscritti in aramaico, la lingua di Cristo, vandalizzati e gettati nella polvere dai terroristi» dichiara orgoglioso un giovane volontario mostrando i Vangeli sopravvissuti.

I curdi non li lasciano ancora combattere in prima linea, ma i volontari sono decisi a riconquistare i villaggi cristiani perduti. Si addestrano qualche chilometro più in là, fra le quattro case di Sharafia. Il comando è ricavato in uno studio da dentista. I miliziani «pronti al sacrificio» presidiano la zona per evitare ulteriori saccheggi alle case cristiane abbandonate.


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Il villaggio di Telleskef, 30 chilometri da Mosul, è stato occupato per un mese dallo Stato islamico, che ha portato via almeno 3 mila capi di bestiame e saccheggiato qualche casa. I combattenti curdi l’hanno «liberato», ma molti raccontano che dopo è stato anche peggio. «Quelli della guerra santa si sono portati via il televisore al plasma, ma i peshmerga hanno rubato sette volte in casa mia. Se il Califfo ha svuotato qualche abitazione, i curdi le hanno saccheggiate tutte» denuncia, senza peli sulla lingua, Rustam Shamoon Sheya, ingegnere cristiano che viveva in una bella villetta a Telleskef.
Più in periferia, la croce sopra la porta spalancata di una casa è ancora intatta, ma il cancello d’ingresso l’hanno tirato giù a calci. Non è l’unica abitazione presa d’assalto. L’immagine di Cristo, che resiste su una parete, sovrasta il caos dell’armadio svuotato alla rinfusa per cercare qualcosa di valore. I proprietari sono fuggiti così in fretta da abbandonare le ciabatte sulle scale. In un’altra abitazione hanno spezzato in due un crocefisso. Nelle strade desolate del villaggio fantasma si incontra qualche sfollato che recupera sedie, tavoli e un frigorifero con un’immaginetta di Cristo scampati alle razzie. I peshmerga accusano lo Stato islamico, ma a denti stretti ammettono che c’è qualche mela marcia anche fra le loro file.

Dopo la protesta del patriarca caldeo gli ordini arrivati dall’alto sono draconiani. «Il presidente del Kurdistan, Massoud Barzani, vuole che difendiamo i cristiani come se fossero le nostre famiglie» sostiene il generale curdo Sarhad Betwata, che ci accompagna fra le case abbandonate. L’ingegnere Shamoon Sheya, che punta il dito contro i peshmerga, non ha dubbi: «Nessuno ci ha mai veramente difeso. Dobbiamo tornare a casa e cacciare i terroristi dalla piana di Ninive e Mosul, fondando un governatorato cristiano protetto dalla comunità internazionale e dai nostri giovani in armi».

In realtà gran parte dei rifugiati cristiani spera di ottenere un visto per l’Europa, con l’obiettivo di lasciarsi la guerra alle spalle per sempre. Solo la Francia ha aperto le porte, ma le richieste sono migliaia. Per questo motivo le famiglie cristiane hanno cominciato ad affidarsi ai trafficanti di uomini pagando 10 mila dollari per arrivare in Occidente lungo vie clandestine. E per mettere insieme i soldi cedono le loro case abbandonate nelle aree controllate dal Califfato. Agenzie immobiliari di Erbil, senza scrupoli, stanno approfittando dei cristiani costringendoli a svendere le abitazioni a prezzi tre-quattro volte inferiori al valore di mercato.

Non tutti scappano, però. Ad Al Qosh, la roccaforte cristiana in Kurdistan, il Movimento democratico assiro resiste e schiera una parte dei suoi miliziani. Giovanissimi con i kalashnikov presidiano chiese, cimiteri e la sede fortificata in una posizione dominante. Un tipo con la barbetta avrà poco più di 20 anni. Un suo compagno con il fisico da Rambo ostenta muscoli ed equipaggiamento militare americano. Il giovane vicecomandante Kado ammette sconsolato: «Il mio unico, vero amico è questo fucile mitragliatore Ak 47. Quando lo Stato islamico ha sferrato il suo attacco, i peshmerga e l’esercito iracheno si sono volatilizzati abbandonando i cristiani al loro destino. Assieme agli yazidi (un’altra minoranza massacrata dal Califfato, nda) siamo gli unici decisi a garantire protezione alle nostre comunità, ma ci serve l’aiuto dell’Occidente».
A Erbil, capitale del Kurdistan, altri tre partiti si stanno organizzando per formare un esercito di volontari con la croce di 700 uomini. Almeno 150 veterani cristiani della guerra civile in Siria dovrebbero arrivare a dare man forte. Le armi arriverebbero da Beirut grazie a Samir Geagea, leader cristiano delle forze libanesi.

Per ora ad Al Qosh ogni combattente ha solo 120 proiettili. L’equipaggiamento viene acquistato grazie alle collette organizzate dalle comunità assire in Europa e Stati Uniti. Da una casamatta sul tetto, i miliziani dominano le strade di ingresso alla cittadina. Gli ordini sono di organizzare l’evacuazione delle famiglie cristiane in caso di attacco jihadista «e poi resistere fino alla morte» assicura Kado, l’ex insegnante. Sul giubbotto antiproiettile ha una collanina di perline con su scritto «Free Assirya», sogno quasi impossibile di un’entità autonoma cristiana nel nord dell’Iraq.

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Fausto Biloslavo