Carcere duro, basta con gli eccessi del "41 bis"
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Carcere duro, basta con gli eccessi del "41 bis"

La morte del boss Bernardo Provenzano, dopo lunghi mesi di agonia in regime carcerario duro, dovrebbe aiutare a riaprire il dibattito

Più che sul diritto del defunto a ricevere un funerale (negato in forma pubblica dal prefetto per motivi di ordine pubblico, ma con il solito eccesso di zelo populista qualche parlamentare della "sinistra giudiziaria" voleva vietarlo del tutto), la fine del boss mafioso Bernardo Provenzano, morto oggi a 83 anni dopo una lunga agonia trascorsa al regime di carcere duro, dovrebbe in qualche modo aprire un dibattito sul "41 bis".

I cronisti di giudiziaria lo chiamano proprio così, laconicamente: "41 bis". Ogni volta dando per scontato che i lettori sappiano che quel numero descrive un articolo della legge sull’ordinamento penitenziario, la norma che regola la detenzione all’interno delle strutture carcerarie italiane.

Il 41 bis è in realtà il "regime detentivo speciale", istituito nel 1992 a cavallo delle due stragi magiose di quell’anno (Capaci e via D’Amelio), ed erede a sua volta delle «carceri speciali» create negli anni Settanta contro il terrorismo e poi abolite nel 1986 con la legge Gozzini.

La legge, modificata nel 2002, prevede restrizioni gravi per i detenuti più pericolosi, cioè mafiosi o terroristi, cui giustamente si vogliono evitare contatti con l’esterno. Così viene ammesso un solo colloquio telefonico mensile con i familiari e con i conviventi "della durata massima di dieci minuti e sottoposto a registrazione"; le ore d'aria non possono essere più di quattro al giorno, e devono svolgersi in gruppi inferiori a cinque persone; i colloqui possono avvenire al massimo una volta al mese, e devono svolgersi "in locali muniti di vetri o altre separazioni a tutta altezza, che non consentano il passaggio di oggetti di qualsiasi natura, tipo o dimensione".

Chi è sottoposto al 41 bis (erano 721 uomini e sette donne al 31 dicembre 2015, prevalentemente mafiosi, soprattutto camorristi) non può ricevere dall'esterno generi alimentari "che secondo l'uso richiedono cottura", la sua corrispondenza è sottoposta a visto di censura, non può scambiare nulla con altri detenuti, gli è vietato cucinare, non può tenere del detersivo, la cella può essere perquisita anche più volte alla settimana.

Fin qui, diranno i lettori, nulla di sconvolgente. Certo, nel Paese in cui la frase più pronunciata nei confronti del detenuto medio è "buttate la chiave della sua cella", la scarsa sensibilità al tema non stupisce. E questa battaglia di civiltà, probabilmente, si infrangerà contro un muro di gomma. Ma la Commissione diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, ha svolto un accurato esame sull’applicazione concreta del 41 bis. E i risultati della ricerca dovrebbero far pensare anche i "gettatori di chiavi".

Ristretti al regime detentivo speciale ci sono prigionieri malati, in certi casi molto gravemente come Provenzano, che da almeno un anno era incapace d’intendere e di volere ma non è riuscito mai a uscire dal regime duro. E uno si domanda: perché? Ci sono detenuti in isolamento, nelle cosiddette "aree riservate", ai quali nemmeno gli agenti di custodia possono nemmeno rivolgere la parola: perché?

La Commissione Manconi critica certi criteri inutilmente afflittivi della sorveglianza, che nelle aree destinate al 41 bis avviene 24 ore su 24 attraverso telecamere in cella e a volte anche nei bagni, che gli agenti possono sorvegliare in qualsiasi momento da uno spioncino. Anche qui: perché? A che cosa serve?

"Quanto da noi descritto è spesso orribile, incompatibile col dettato costituzionale e umiliante per lo Stato e per il nostro ordinamento" dice Manconi, una vita spesa per il garantismo coniugato da sinistra. "Il 41bis ha l'unico ed esclusivo scopo d’interrompere le relazioni tra il detenuto e la criminalità esterna. Tutto il resto, in quanto non previsto, quando si riveli afflittivo è illegale".

I "gettatori di chiavi" saranno certamente infastiditi da questo esercizio di garantismo. Penseranno probabilmente che queste sono soltanto ubbie, quisquilie, inutili fanfaluche. Diceva un tizio, invece, che un Paese si misura anche dalla civiltà delle sue carceri. Continuare a pensare che i diritti debbano valere anche per i condannati e per i detenuti, e perfino per i peggiori tra loro, è il più alto esercizio di libertà.

Tornando a Provenzano, parole giusta ha pronunciato Domenico Gozzo, per lunghi anni magistrato antimafia e ora alla procura generale di Palermo: "Lo Stato italiano" dice "avrebbe potuto, in questi ultimi anni, marcare la propria differenza. Far sentire, nel momento in cui Provenzano non ci stava più con la testa, la differenza tra uno Stato di diritto, che applica le norme, anche nei confronti di un mafioso - e dunque, se uno non ragiona e non comunica, non può essere pericoloso - e le belve di Cosa nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana".

"Invece" prosegue Gozzo "si è voluto continuare ad applicare il 41 bis a un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l'idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E questo, per me, è inaccettabile".

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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