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I Repubblicani contro Trump? La vera strategia è portare Pence alla Casa Bianca

In caso di vittoria alle elezioni, l'idea è sfilare la poltrona di presidente alla “scheggia impazzita”, per favorire il vice

Di una cosa si può essere certi riguardo a Donald Trump: il ragazzo d’oro del mattone sa come incassare i colpi.

Dopo aver ricevuto un colpo bassissimo orchestrato nientemeno che dai Bush - sì, proprio la famiglia che ha partorito due presidenti repubblicani e che lo odia per come ha umiliato il terzo Bush, Jeb, alle primarie - ossia la pubblicazione di una video del 2005 in cui il tycoon si lancia in una serie di commenti grevi su come tratta (male!) le donne, l’intera America gli si è rivoltata contro.

Passino i Robert De Niro che dichiarano di voler “prendere a pugni in faccia quel maiale”, ma oggi anche il suo partito, il Grand Old Party repubblicano, gli ha girato le spalle per bocca dello speaker della Camera, Paul Ryan.

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Che tra i due non corresse buon sangue è cosa nota sin dal giugno 2015, quando Trump annunciò la sua candidatura.

All’epoca, molti nel partito dell’elefantino risero - tra cui lo stesso Jeb Bush e certamente anche Paul Ryan - reputando che fosse solo il capriccio di un miliardario annoiato. Quanto si sbagliavano.

Mentre giorno dopo giorno Donald Trump continuava a volare nei sondaggi e a sconfiggere uno a uno tutti i concorrenti delle primarie, Paul Ryan iniziava a disperarsi e a meditare il da farsi insieme ai vertici del partito repubblicano.

Paul Ryan contro Donald Trump
Ryan è un classico conservatore: nato nel 1970, è entrato alla Camera a soli 28 anni ed è stato rieletto per sei volte consecutive.

Scelto come vicepresidente da Mitt Romney per le presidenziali del 2012, nell’ottobre 2015 è diventato il più giovane speaker della Camera dal 1869, grazie alla rinuncia di John Boehner.

Ryan è stato il collante per raddrizzare le derive scissioniste del Gop seguite alla spaccatura intera promossa dal Tea Party (la destra repubblicana).

Contrario alle leggi sull’aborto e ai matrimoni gay, Ryan cita San Tommaso d’Aquino ed è favorevole alla privatizzazione di Medicare. Ma soprattutto è un vero uomo dell’establishment: per questa ragione mal digerisce un parvenu della politica come Trump, i cui metodi e soprattutto la cui pretesa di scalare il partito sono considerate un atto sacrilego.

Del resto, anche Trump non lo digerisce e si era rifiutato persino di appoggiare la sua rielezione a speaker della Camera, salvo poi scendere a più miti consigli, su suggerimento di Mike Pence, il vicepresidente designato: “Non saremo d'accordo su tutto ma, come accade tra amici, non smetteremo mai di lavorare insieme per la vittoria” ha chiuso la questione il tycoon.

In quell’occasione, Trump aveva glissato anche sull’appoggio alla rielezione di John McCain. Entrambi non gliel’hanno perdonato.

Paul Ryan non ha mai nascosto l’antipatia per Donald Trump. Ancora a metà maggio 2016, quando ormai il tycoon aveva in pugno la candidatura, la resistenza a un suo endorsement è stata tale che alle insistenze dei giornalisti ha risposto: “Non sono pronto in questo momento, non ci sono ancora. Spero e mi auguro di farlo”.

Il suo appoggio è arrivato solo un mese dopo, con parole che sono suonate poco sincere: “Sono fiducioso che (Trump, ndr) ci aiuterà a trasformare le idee in agenda in leggi che aiutino a migliorare la vita delle persone. Ecco perché io voterò per lui questo autunno”.

Da quel momento in poi, i suoi commenti sono stati a dir poco sibillini. Uno su tutti, nel giorno dell’ufficializzazione della candidatura alla Convention Nazionale Repubblicana: “Solo con Donald Trump e Mike Pence abbiamo la migliore possibilità”.

Impeachment
Ora, se questa frase appare innocua e scontata, in essa c’è invece il vero programma-ombra dei repubblicani che prevede, in caso di vittoria, di sfilare appena possibile la poltrona di presidente alla “scheggia impazzita” a mezzo impeachment, per favorire l’arrivo alla Casa Bianca proprio del vice di Trump, Mike Pence.

Mike Pence, il “cavallo di Troia” repubblicano
Pence è uomo dell’establishment e un fedele repubblicano non meno di Paul Ryan: eletto nel 2001, è rimasto al Congresso fino al gennaio 2013, quando è stato eletto Governatore dell’Indiana. Ma soprattutto è stato imposto a Donald Trump dal vertice del partito, mentre lui avrebbe preferito l’amico Chris Christie o l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich.

Trump non conosceva il Governatore dell’Indiana, si saranno incontrati sì e no quattro o cinque volte prima delle primarie.

Mike Pence si è avvicinato a lui solo dopo la vittoria in Indiana, dove “The Donald” si è imposto con 18 punti di vantaggio su Ted Cruz, che proprio quel giorno si è ritirato dalla corsa per le presidenziali (4 maggio 2016). Fino ad allora, Pence aveva sostenuto indefessamente Cruz e boicottato pesantemente il tycoon newyorchese.

Sulla scelta di Pence come vicepresidente ha pesato molto il parere di Paul Manafort, all’epoca spin doctor di Trump e già suggeritore dei due Bush e di John McCain.

A metà agosto, però, Trump ha licenziato Manafort dalla guida del suo staff con queste parole: “Mi sentivo costretto in una scatola e controllato”.
Il candidato repubblicano ha fiutato, tardivamente, la trappola imbastitagli dal partito.

La strategia dei Repubblicani per non perdere potere
Ciò detto, anche se i repubblicani boicottano Trump a mezzo stampa, lo fanno solo per salvare la faccia.

Infatti, nelle urne voteranno comunque il loro candidato, semplicemente perché non si possono permettere di perdere le elezioni. In ballo non ci sono solo la poltrona di presidente e di vicepresidente, ma la rielezione del Congresso (oggi saldamente in mano repubblicana) e, soprattutto, l’elezione del nono giudice della Corte Suprema.

Per i repubblicani, perdere la presidenza significherebbe altri quattro anni senza controllo dell’esecutivo che, sommati agli otto di amministrazione Obama, fanno dodici anni lontani dalla Casa Bianca (che potrebbero diventare anche sedici). Un tempo troppo lungo da concedere ai democratici.

Il Congresso
Per quanto riguarda il Congresso, la Camera si rinnova ogni due anni: quest’anno si vota per il ricambio del cinquanta per cento. Il Senato, invece, si rinnova ogni sei anni ma un terzo ogni due, come quest’anno. Il rischio di perdere il controllo del Congresso già nel 2016, perciò, è reale (senza contare che si rinnoverà anche un certo numero di Governatori).

La Corte Suprema
Ma soprattutto, nel voto dell’8 novembre c’è in ballo la nomina dell’ultimo dei nove giudici della Corte Suprema, un organo che svolge un ruolo fondamentale in America, poiché con le proprie decisioni indirizza le politiche del Paese e fa giurisprudenza.

In seguito alla morte del giudice conservatore Antonin Scalia dello scorso febbraio, la Corte Suprema oggi è spaccata a metà, con quattro democratici e quattro repubblicani.

La loro nomina spetta al presidente degli Stati Uniti, previa conferma del Senato: la vittoria di Hillary Clinton alienerebbe un altro pezzo di potere dal controllo dei repubblicani, che si ritroverebbero così senza maggioranza alla Corte Suprema, un fatto che non si verifica dai tempi di Nixon, precisamente dal 1971.

Barack Obama si è guardato bene dal nominare un giudice democratico, ben sapendo che il Senato attuale a guida repubblicana lo boccerebbe, e lascerà che sia il prossimo presidente a proporne la nomina.

Poiché i giudici sono eletti a vita, in caso di sconfitta i repubblicani si ritroverebbero con una Corte Suprema democratica per almeno i prossimi venticinque anni.

Dunque, il dilemma repubblicano è in realtà un falso dilemma: se non vincerà Donald Trump, infatti, il Gop rischia di perdere in un solo colpo il controllo sul potere esecutivo, legislativo e giudiziario. E questo i repubblicani non possono permetterselo.

Ecco perché Paul Ryan e gli altri esponenti del partito, nel segreto dell’urna si ritroveranno per mero calcolo politico a votare Donald Trump con una mano e a preparare un impeachment con l’altra.
Per far fuori un presidente, come insegna la storia americana, c’è sempre tempo.

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Luciano Tirinnanzi