I magistrati possono far politica. I soldati neanche tatuarsi.
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I magistrati possono far politica. I soldati neanche tatuarsi.

Servitori dello Stato più "uguali" degli altri: il fascio sul bicipite di un soldato no, le esternazioni delle toghe rosse sì.

Il manifesto silenzioso e epidermico dei tatuaggi è definitivamente proibito per i militari almeno nelle forme più sessualmente trasgressive o politically incorrect. Ma chi pensa a quegli altri manifesti quotidiani, rumorosi e tutto fuorché innocui della propaganda in classe degli insegnanti “impegnati” o, peggio, all’uso ideologico e all’esternazione sistematica da parte di certe toghe delle proprie funzioni inquisitorie?

La domanda è: compromette l’immagine d’imparzialità e integrità propria dei servitori dello Stato più il tatuaggio a sfondo politico sull’avambraccio di un soldato o l’intervista di un magistrato a un quotidiano di partito (o la sua partecipazione a iniziative politiche contro esponenti di governo)? Sarà pure un bene la direttiva “non ancora diramata” con la quale si bandiscono nell’esercito i tatoo eccessivi.

Ma rimane un fastidioso fondo di pedanteria astratta e di ipocrisia reale nella disciplina del corpo che si vuole imporre alle divise. Specie se un magistrato come Antonio Ingroia, bacchettato dal Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso perché “fa politica”, replica intervistato da Radio2 (“Un giorno da pecora”) dicendo che esprimere le proprie opinioni è un diritto.

Il caso vuole che nello stesso giorno in cui compare sul web la crociata contro i ghirigori politico/sessuale sulla cute esca sul quotidiano di partito L’Unità l’ennesimo intervento a gamba tesa proprio di Ingroia. Che commenta la vicenda giudiziaria in fieri dell’Ilva di Taranto e si scaglia contro i politici che delegano la soluzione di problemi e emergenze ai magistrati, per poi contestarli. Non pago, Ingroia evoca un altro paradosso “ancor più grave”, quello per cui “la politica, che dovrebbe essere il regno della prevenzione dei conflitti, manca l’appuntamento col suo paradigma identitario (sic) per instaurare invece, a posteriori, dannosi conflitti con il potere giudiziario”. Non nomina certo il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per il conflitto sollevato dal Quirinale nella vicenda della trattativa Stato-Mafia. Ma neanche lo esclude a scanso di equivoci…  

Sì, banalmente la direttiva osserva che lo dice la parola stessa: uniforme, cioè uguaglianza. I soldati devono essere soldatini. Solo che nei ranghi dello Stato qualcuno, come nella celeberrima Fattoria degli Animali, è più uguale degli altri. I magistrati e gli insegnanti più dei militari.        

In fondo, i tatuaggi fanno parte da sempre del corredo bellico nei Paesi in cui più forte è la tradizione guerriera, dai tempi del “De Bello Gallico” e dei britanni dipinti di blu fino ai giorni nostri. Il disegno sulla pelle è un amuleto nello scontro, e maschia la prova di resistenza al dolore durante l’incisione. Il tatoo è grido di battaglia e testimonianza, come per quell’ex soldato britannico che in quattro ore si è fatto tatuare gli oltre 200 nomi di commilitoni morti in Afghanistan. O segno d’appartenenza, come per i canadesi del 22° Royal Regiment con le nocche delle dita tatuate cosicché stringendo il pugno compaiano le iniziali R22R.

I nostri militari, soprattutto nelle unità speciali, vedi la Folgore, i tatuaggi se li fanno eccome (un po’ come i calciatori: il recordman è Materazzi con 23, il suo numero di maglia). Qualcuno dovrà eliminarli, ma non basta il cancellino: faranno come il generale Massimo, alias Russell Crowe, che nel Gladiatore di Ridley Scott scortica e rimuove con una lama l’SPQR tatuato sul braccio? Voglio proprio vederli i nostri militari compilare la lista, col dettaglio di dislocazione e contenuto, di tutti i tatuaggi che ormai sono prescritti e vanno però denunciati. C’è chi grida alla privacy violata. E chi sorride considerando la discrezionalità dei comandanti e gli aspetti comici dell’ispezione periodica corporale.

Comunque ora lo sappiamo: i militari sono meno uguali degli altri. No al fascio sul bicipite per i soldati, mentre i magistrati potranno continuare a far politica. Ci sono “servitori dello Stato” che la militanza ideologica o di partito ce l’hanno tatuata nel cervello e sulla lingua. E per quello c’è poco da fare.    

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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