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Mulè: I tagli alla spesa e i nostri Don Abbondio

Ci vuole coraggio per governare un Paese in crisi come il nostro: di un Don Abbondio «non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno» l’Italia non se ne fa nulla.

All’interno di questo numero di Panorama troverete nutrimento a sufficienza per sostenere davanti a chiunque come sia possibilissimo tagliare le spese di questo Stato con un risparmio di almeno 30 miliardi di euro (in pratica l’equivalente di oltre due manovre). E potrete sostenere i vostri argomenti sulla scorta di un documento inoppugnabile che proviene dal Dipartimento del personale e dei servizi del ministero dell’Economia, che ha messo in fila la differenza al centesimo tra quanto le amministrazioni pagano beni di ogni genere (dalle sedie ai computer, dal costo delle telefonate a quello della carta) e quanto si potrebbe risparmiare, se solo si applicassero principi di buona gestione comuni in ogni famiglia prima ancora che in ogni azienda.

Se poi il vostro interlocutore dovesse iniziare a dire che non è possibile tagliare, perché altrimenti ne andrebbero di mezzo la qualità dei servizi o i posti di lavoro delle piccole imprese che forniscono localmente gli enti, fermatelo e invitatelo caldamente a non dire fregnacce: non è vero e basta leggere le osservazioni di buon senso diligentemente elencate dal professor Gustavo Piga nel suo articolo a pagina 46 del numero 46 di Panorama.

Sempre al ministero dell’Economia segnalo che è stato depositato un altro rapporto, stavolta della Copaff, acronimo che sta per Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale. Questa commissione ha messo in fila le spese di comuni e province per servizi generali (polizia locale, anagrafe e uffici tecnici per esempio), di istruzione, gestione del territorio e dopo tre anni è arrivata alla conclusione che c’è tanto di quel grasso da eliminare che si possono risparmiare almeno 4 miliardi dal 2015 e ancora di più negli anni successivi. Un’altra manovra, insomma.

Spending review da una parte e fabbisogni standard dall’altra: ecco qui le due voci, già belle e pronte al ministero dell’Economia, sulle quali bisogna avere il coraggio di intervenire. Non mi viene altra parola diversa da coraggio. Piuttosto che continuare a dire bugie (vedere l’articolo a pagina 52) o continuare a usare il condizionale ogni volta che si parla di riforme, Enrico Letta coniughi il nostro tempo all’indicativo. Dia senza indugio l’ordine di iniziare a tagliare, di dare seguito al lavoro certosino già fatto al ministero dell’Economia. Consegni a Stefano Fassina e Pier Luigi Bersani, che insistono nel dire che non si può tagliare la spesa pubblica, le indagini già concluse dagli esperti. C’è la possibilità concreta di smetterla di introdurre patrimoniali mascherate e odiosi balzelli, di piantarla con le inutili vessazioni su lavoratori dipendenti e pensionati, di abbandonare il giochino delle tre carte ogni qualvolta si parla di tassa sulla casa (via Imu, dentro Tasi e Trise). Ci vuole coraggio per governare un Paese in crisi come il nostro: di un Don Abbondio «non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno» che neppure si accorge di essere «come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro», l’Italia non se ne fa nulla.

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Giorgio Mulè