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Iran, i rischi per il presidente Rouhani

Negli Usa c'è chi vuole la sua testa per dimostrare che il regime non si può riformare. A Teheran qualcuno la vuole per dimostrare che non deve riformarsi

Potrebbe assumere i contorni imprevisti di uno scontro risolutivo quello che la scorsa settimana, a cavallo fra gli ultimi giorni del 2017 e i primi del 2018, ha infiammato le strade delle principali città iraniane, e che, per ora, sembra essersi placato.

Partito come un tentativo di distrarre l'opinione pubblica interna dalle operazioni truffaldine di finanziarie vicine alla cricca dell'ex presidente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad (ancora potente), inizialmente non per caso è divampato nelle province dove maggiore è il sostegno per i conservatori.

I suoi slogan contro il carovita, la disoccupazione e la penuria di beni essenziali erano evidentemente rivolti al presidente in carica, il riformista Hassan Rouhani, e al suo governo, in quanto responsabili della politica economica.

In breve tempo, però, a mano a mano che la protesta dilagava e si allargava a gruppi sociali diversi, anche i bersagli si sono moltiplicati fino a includere la corruzione (attribuita al regime in generale e al clero, con tutto il codazzo di accoliti e "famigli") e l'oppressione sistematica e asfissiante di ogni forma di dissenso rispetto all'esibito rigore puritano della Repubblica islamica.

Da ultimo, è finita nel mirino di una parte almeno dei manifestanti la "politica di potenza" dell'Iran, soprattutto il suo impegno in Siria a sostegno del regime di Bashar al Assad (oltre che ai ribelli yemeniti, agli Hezbollah libanesi e a Hamas), quanto di più lontano ideologicamente dalla ierocrazia di Teheran.

È a questo punto che si sono evidenziate le mosse di una partita a scacchi tra le due anime della ormai quarantenne creatura di Ruhollah Khomeini.

Mentre si aveva notizia dei primi morti (inizialmente "pochi", considerata la gravità e la virulenza delle proteste e la consueta brutalità e assenza di scrupoli delle forze di sicurezza), il presidente Rouhani faceva una pubblica apertura a favore del "diritto a manifestare", sia pur in forme pacifiche.

Un fatto clamoroso e inedito, giustificato dalla necessità di smarcarsi dalla scomoda posizione in cui era venuto a trovarsi.

In realtà, nelle 24 ore successive, la repressione (controllata e organizzata dai suoi acerrimi rivali, i Pasdaran) subiva un'impennata, portando la conta delle vittime oltre la dozzina (ormai si viaggia sul centinaio), mentre la stessa tv di Stato dava notizia della violenza delle proteste e dell'elevato numero di morti. La credibilità del presidente riformatore neè uscita pesantemente scossa, per non dire distrutta: un bugiardoo un incapace.

Lo stesso Rouhani, a seguito dei tweet del suo omologo Donald Trump, si trovava poi giocoforza costretto a denunciare l'infiltrazione di agenti provocatori stranieri tra i dimostranti, assecondando la risibile idea di un complotto internazionale volto a privare l'Iran dei suoi successi in Medio Oriente.

In realtà la sensazione è quella che, se complotto c'è stato, si è trattato di quello orchestrato dai seguaci di Ahmadinejad nei confronti di Rouhani e, probabilmente, in una prima fase assecondato dai Pasdaran, che però sono intervenuti quando la situazione è sembrata scappare di mano.

Del resto quando le proteste hanno iniziato a prendere di mira la politica di potenza dell'Iran (che di fatto è responsabilità loro e ne ha ulteriormente accresciuto il peso in questi anni) hanno capito che andavano bloccate a qualunque costo.

Non a caso nel suo primo intervento dall'inizio delle proteste, la Guida suprema iraniana, ayatollah Ali Khamenei, ha detto che i nemici dell'Iran "hanno rafforzato l'alleanza per colpire le istituzioni islamiche" del Paese. Difficile prevedere cosa succederà ora.

Anche se è improbabile che il regime possa crollare, la vastità della protesta ha colto tutti di sorpresa e denuncia un malessere che senza dubbio è frutto anche delle dure sanzioni internazionali (parzialmente alleggerite dopo l'accordo sul nucleare) e di quelle americane (che continuano).

Ma dimostra anche la crescente insofferenza popolare per un regime incapace di tenere fede alle sue promesse di eguaglianza sociale, corrotto e soffocante, che comunque manda a morte decine e decine di suoi cittadini per "crimini" politici, sessuali e religiosi.

Di sicuro i Pasdaran non molleranno la presa e non esiteranno neppure di fronte alle stragi, pur di difendere il regime e i propri interessi. Per poi regolare i conti interni in un secondo tempo.

E il presidente appare il vaso di coccio trai vasi di ferro: "spiazzato" sia rispetto agli ortodossi del regime sia rispetto ai liberal che lo avevano eletto per ben due volte con grandi speranze. Nel mirino anche di tutti quelli che, all'ombra delle sanzioni, si sono arricchiti per anni e che temono che la normalizzazione internazionale minacci i loro profitti.

La posizione di Rouhani dunque vacilla.

Oltretutto perché, tanto a Washington quanto a Teheran, c'è chi vuole veder rotolare la sua testa: per dimostrare che il regime non può o non deve autoriformarsi.

(Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale Panorama del 4 gennaio 2018 con il titolo: "In Iran chi rischia di più è il presidente")

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Vittorio Emanuele Parsi

Professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano

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