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Brexit, cosa potrebbe accadere ora

Il Consiglio Europeo ha deciso per lo slittamento al 31 ottobre. Theresa May ancora sconfitta

31 ottobe. Ecco la nuova data della Brexit, secondo quanto stabilito dal Consiglio Europeo chiusosi a tarda notte. Si tratta dell'ennesima sconfitta per Theresa May che aveva chiesto uno spostamento della data dell'uscita del Regno Unito al 30 giugno. I membri del Consiglio Europeo non hanno dato fiducia alla May convinti che vista la situazione politica attuale in Gran Bretagna sarebbe stato difficile trovare un accordo in Parlamento in così poco tempo.

E' passata quindi la linea del polacco Tusk, di uno spostamento in autunno. "Tutto ciò che accadrà sarà nelle mani del Regno Unito – ha chiarito il presidente del Consiglio Ue alla fine del summit a Bruxelles protrattosi oltre le due di notte -. Può ratificare l’accordo di ritiro e andarsene oppure può cambiare strategia, anche se non si potrà cambiare l’accordo di ritiro. Oppure può decidere di revocare".

Resta ancora da chiarire se ed in quale modo il Regno Unito parteciperà alle prossime Elezioni Europee del prossimo 26 maggio 

May bocciata ancora in Parlamento

Sconfitta definitiva per Theresa May. Venerdì 29 marzo, nel giorno che avrebbe dovuto essere quello della Brexit, la Camera dei Comuni ha rigettato per la terza volta (344 voti contrari e 286 favorevoli) l'accordo di divorzio siglato a novembre con la Ue. E ora il destino del Regno Unito (e anche quello della premier britannica) è ancora più in bilico. 

La Brexit apre una crisi europea

«Le conseguenze di questa decisioni sono pesanti» ha esclamato una May visibilmente irritata subito dopo il voto. La leader Tory ha rinfacciato ai parlamentari di aver rifiutato ogni possibile opzione (l'accordo, l'uscita senza accordo, gli emendamenti all'accordo) prima di ribadire, quasi con tono di sfida: «Questo governo ha intenzione di gestire una Brexit ordinata come l'esito del referendum ha chiesto». Ma riuscirà a tenere il timone in mano?

L'ultimatum di Bruxelles scade il 12 aprile

Appreso l'esito della votazione, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha subito convocato un summit a livello Ue per gestire la situazione: ad appena 14 giorni dalla scadenza dell'uscita, infatti, nessuno sa dire se e come Londra lascerà l'Ue.

Come noto, nel vertice europeo del 21-22 marzo, il Regno Unito aveva chiesto un rinvio della data di uscita, inizialmente fissata il 29 marzo. Ma i leader dei paesi Ue avevano imposto una scadenza molto ravvicinata: entro il 12 aprile, Londra avrebbe dovuto approvare l'intesa raggiunta con Bruxelles oppure chiarire le sue intenzioni: chiedere una proroga più lunga presentando un piano alternativo e partecipare alle elezioni europee? Oppure tornare a elezioni politiche anticipate e decidere con un nuovo esecutivo?

Il ruolo del Parlamento

Lunedì 25 marzo, la May era stata battuta per l'ennesima volta a Westminster: i parlamentari avevano approvato (con 329 si e 302 no) un emendamento del conservatore Oliver Letwin per autorizzare i parlamentari a effettuare una serie di "voti indicativi". L'obiettivo era quello di cercare una proposta alternativa con un possibile sostegno della maggioranza a Westminster. Un passaggio che, di fatto, aveva "spodestato" il governo dall'iniziativa.

Con il guaio che i parlamentari potrebbero lavorare a un'uscita di Londra dall'Ue diversa e non gradita a Downing Street. Insomma, innescare uno scontro istituzionale a pochi giorni dalla nuova scadenza e con lo spettro della «no-deal Brexit» che torna ad aleggiare nell'aria.

Le 72 ore cruciali senza sblocco

Il mese di marzo, invece di sbloccare, ha complicato la situazione. Nonostante l'appello della premier britannica Theresa May per salvare in extremis l'intesa faticosamente raggiunta prima che fosse troppo tardi, nel voto decisivo di martedì 12 marzo la Camera dei Comuni aveva bocciato il testo una seconda volta con ampia maggioranza(391 no e 242 si).

Subito dopo, una May letteralmente senza voce aveva cercato di difendere il suo operato. Ma il leader dell'opposizione, il laburista Jeremy Corbin, l'aveva invitata a farsi da parte chiedendo un ritorno alle urne. Una sconfitta pesante per la leader dei Tories, che aveva insistito nel portare avanti una linea già respinta dai parlamentari senza mollare.

Per eliminare lo spauracchio più temuto, però, la Camera dei Comuni aveva escluso anche la possibilità di una «no-deal Brexit» in qualsiasi circostanza. Il colpo di scena, avvenutonel voto di un emendamento mercoledì 13 marzo e passato per una manciata di voti (312 si e 308 no), aveva fatto tirare un respiro di sollievo a Westminster. Pur senza avere un preciso valore vincolante, infatti, il risultato era diventato un messaggio chiarissimo per la premier britannica Theresa May.

Poi, nel terzo giorno consecutivo di votazioni giovedì 14 marzo, la Camera dei Comuni aveva deciso di chiedere il rinvio della scadenza del 29 marzo. La mozione di estensione dell'ormai famigerato articolo 50, presentata dallo stesso governo della premier britannica Theresa May, aveva ottenuto 412 favorevoli e 202 contrari.

Un precedente emendamento avanzato dalla ex conservatrice Sarah Wollaston per indire una nuova consultazione popolare sulla Brexit, invece, era stato battuto: l'aula aveva respinto un referendum bis con 334 voti contrari, fra i quali anche 18 laburisti (appena 85 i favorevoli).

Il punto di partenza: l’accordo bocciato

Il contratto di divorzio raggiunto fra Londra e l'Ue, sonoramente bocciato una prima volta dalla Camera dei Comuni la sera del 15 gennaio con 432 voti contrari e appena 202 favorevoli, prevedeva questi impegni:

1) il Regno Unito avrebbe dovuto versare a Bruxelles ancora 39 miliardi di sterline (quasi 44 miliardi di euro) tra contributi all'Ue e altri pagamenti;

2) veniva garantita la salvaguardia reciproca dei diritti a ben 3,6 milioni di cittadini europei residenti in Regno Unito e un milione di inglesi residenti nei vari paesi europei, senza ripristinare i visti d’ingresso o mettere in discussione permessi di studio e di lavoro;

3) per evitare il ritorno di un confine fisico tra l'Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e l'Irlanda (membro dell’Ue), all’Irlanda del Nord sarebbe stato concesso di continuare a essere considerata parte del mercato unico;

4) si stabiliva un periodo di transizione che sarebbe terminato venerdì 29 marzo, data di uscita definitiva di Londra dall’Ue.

Il disperato tentativo di rinegoziare il patto

Nel tentativo di evitare l'uscita senza intesa, che avrebbe fatto male più a Londra che all'Ue, Theresa May aveva cercato l'impossibile: rivedere i termini dell'accordo. Ma da Bruxelles non aveva ottenuto sostanziose concessioni. Anzi, il compromesso proposto dal capo negoziatore per l'Ue, il francese Michel Barnier, sul cosiddetto «backstop» (la soluzione per il confine irlandese) si era concluso con un nulla di fatto.

Così, la premier britannica aveva deciso di giocare la sua ultima carta nelle poche ore che ormai la separavano dal voto cruciale raggiungendo il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker all'Europarlamento, dove era in corso la sessione plenaria, per un incontro. L'obiettivo era strappare qualcosa da servire sul vassoio alla frangia più oltranzista dei contrari.

Al centro della scena, sempre il confine irlandese. L'intesa raggiunta prevedeva due punti: uno “strumento legalmente vincolante” sull’accordo utilizzabile da Londra per avviare una “controversia formale” con l’Ue se questa avesse tentato di mantenere il Regno Unito legato indefinitamente al backstop. E una dichiarazione congiunta fra i due (quasi ex) partner con l'impegno a trovare un’alternativa entro dicembre 2020. Ma non era bastato a spuntare la maggioranza a Westminster.

Rinvio della Brexit prima del nuovo Europarlamento

Chiedere un rinvio breve era sembrata a Londra l'opzione migliore perché, altrimenti, anche il Regno Unito dovrebbe partecipare alle europee del 23-26 maggio votando i suoi onorevoli. Ma il nuovo Europarlamento eletto terrà la sua sessione inaugurale ai primi di luglio e, per le norme attuali, se Londra fosse ancora nell'Ue, dovrebbe essere rappresentata con i suoi eurodeputati. Così, qualcuno vagheggiava una dilazione entro il 30 giugno. Ma il summit Ue ne ha imposta una più breve. Del resto, il dubbio resta: come il patto potrebbe essere rivisto con un breve slittamento dopo i diversi fallimenti per ritoccarlo?

Che cosa accadrà ora?

Dopo le tre batoste in aula, Theresa May sembra ormai spalle al muro. Tanto più dopo le imponenti manifestazioni del fine settimana con la People's Vote March che ha portato nel cuore di Londra un milione di inglesi pro-Ue e la petizione per annullare la Brexit (RevokeArticle50) giunta ormai a 6 milioni di firme.

Una delle ipotesi che si fa strada in queste ore è che la premier Tory potrebbe essere costretta dai parlamentari a un iter diverso: per esempio, accettare di restare nell'unione doganale con un memorandum ad hoc da aggiungere all'accordo già chiuso. Oppure la May potrebbe essere spinta a gettare la spugna andando a elezioni. Un nuovo governo potrebbe più facilmente puntare a una Brexit più morbida (ispirata al modello norvegese), indire un secondo referendum o perfino revocare l'uscita. La Corte di giustizia europea infatti ha chiarito che, finché il Regno Unito non ratifica la sua uscita, ha «il diritto di tornare indietro» sulla Brexit.

In effetti, la decisione è complicata perché sono trascorsi solo due anni e mezzo. Ma, nel frattempo, l’accidentato percorso della Brexit ha avuto sviluppi che potrebbero giustificare una nuova consultazione. Nel 2016, del resto, nessuno nel Regno Unito aveva previsto che la trattativa con l’Ue avrebbe avuto conseguenze tanto pesanti; nessuno s’immaginava che Londra avrebbe dovuto versare 39 miliardi di sterline; nessuno, neanche i più fieri Brexiters, avevano realmente toccato con mano gli effetti sull’economia britannica. E se è vero che anche il leader laburista Jeremy Corbyn è contrario a un referendum bis, la base del suo partito è di opinione diversa: un sondaggio di YouGov dice che l’86 per cento degli iscritti al Labour appoggia un nuovo voto. E il 54 per cento dei cittadini britannici è ora su quella linea.

L'addio senza rete.

La Brexit senza intesa sembrava scongiurata. Ma ora non è più scontato. Se Londra uscisse dall’Ue senza paracadute, sarebbe un disastro annunciato: nessun accordo doganale né commerciale, nessuna garanzia per i cittadini inglesi in Europa, né per quelli europei nel Regno Unito. Ripristino di visti e permessi di lavoro, rette universitarie britanniche più care per gli stranieri. In caso di «no deal», inoltre, la Banca d’Inghilterra prevedeva che una discesa del Pil dell’8 per cento in 12 mesi, il prezzo delle case crollato di un terzo e la sterlina di un quarto, l’inflazione salita del 6,5 per cento, la disoccupazione dal 4,1 per cento attuale al 7,5.

Ma non si può tornare indietro del tutto. Le imprese straniere hanno già previsto sospensioni del lavoro e chiusure dal 1° aprile: Honda fermerà lo stabilimento di Swindon nel sud del Paese (3.400 addetti), Bmw farà lo stesso con la sua fabbrica di Mini vicino a Oxford (mille addetti). Per non parlare delle conseguenze politiche: Londra avrà grossi problemi con Scozia, Galles e Irlanda del Nord, dove nel 2016 il voto pro era stato minoritario. insomma, la Brexit annunciata ha già fatto molti danni. Ma tutto è ancora possibile.

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