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La battaglia su Alfie Evans: è stata davvero una vicenda pro-life?

Giuliano Ferrara, che ritiene assurdo regolare per legge il diritto alla morte, ragiona sul caso del bimbo inglese

La tristissima storia di Alfie Evans è stata un caso di scuola di accanimento terapeutico. Il bambino non ce la faceva a vivere e non aveva scampo. Dipendeva interamente da funzioni assicurate dalle macchine.

I medici volevano interrompere ciò che ai loro occhi era ormai uno scempio, nemmeno un tentativo senza speranza di risolvere un caso neurologico irrisolvibile, ma proprio una resistenza accanita al di là del ragionevole e dell'umano; e i giudici, interpellati su istanza della famiglia del piccolo, che invece al residuo di speranza non voleva a nessun costo rinunciare, hanno dato ragione alle decisioni terapeutiche o scientifiche, alle quali soltanto alla fine di un calvario i genitori di Alfie hanno ceduto nella disperazione e nella rassegnazione.

Come in tutte le tragedie, quanto è accaduto aveva il crisma dell'inevitabilità, dell'ineluttabilità. Si è prodotta intorno a quel capezzale, ed è su questo che occorre dire qualcosa al di là dei sentimenti individuali e collettivi suscitati dalla storia e dalla sua triste conclusione, con la morte del paziente distaccato infine dalle macchine, una guerra del sapere, del potere e della carità ovvero dell'amore. Si possono lasciare da parte le eccezionali aridità dei protocolli medici, dei verdetti ospedalieri, e l'impersonale umiliazione che il braccio giudicante della legge impone in questi casi a chi gli si rivolge per tutelare la propria ansia e il proprio sovrumano desiderio di vita. E così si può fare con le esasperazioni petulanti, che anch'esse ci sono state, della pubblicizzazione e dell'elevazione simbolica di un caso simile, sebbene sia comprensibile come il Papa o altri centri medici specializzati, con il conforto del governo italiano, abbiano levato la parola e abbiano agito per uno sbocco al senso di impotenza e dannazione che affliggeva i genitori e l'esercito pro-life mobilitato.

Ma è stata una vicenda pro-life? Non ne sono sicuro. Eutanasia o suicidio assistito sono atti, scelte, sono una consacrazione dissacrante dei diritti, tra questi il diritto assurdo di morire inteso come opzione sociale da tutelare per legge. L'aborto implica anch'esso l'opposizione di un principio a una scelta, pro-life contro pro-choice, in questo caso la decisione che implica l'annientamento di un altro essere umano ancora incompiuto sebbene concepito in tutta la sua personalità biologica e cromosomica.

Il conflitto tra diritto e carità si era manifestato appieno in Italia nel caso di Eluana Englaro. Da molto anni la ragazza, poi giovane donna, viveva in uno stato vegetativo, dormiente, e di lei si prendevano cura le suore, limitandosi al trattamento pietoso di un corpo immobile e all'alimentazione artificiale. Non c'era accanimento terapeutico, c'era accanimento di amore e devozione che assicurava le funzioni elementari dell'idratazione e della nutrizione. Dall'altra parte c'era un padre convinto di dover assolvere a una missione laica, pubblica, legale e legislativa, non più e non soltanto personale, affermare cioè il diritto alla morte di un essere umano e della sua vita difforme, totalmente disabile, e come tale vivibile ma solo nella sofferenza concreta e simbolica di un sonno con pochissime possibilità di risveglio.

I genitori di Alfie Evans volevano cure accanite del loro figlio, soluzioni mediche, non una norma che rendesse obbligatorio fare l'impossibile terapeutico. Nel conflitto su un piccolo esserino incurabile in moltissimi si sono mobilitati con l'eloquenza dell'emozione personale, dai vertici della chiesa a quelli di un governo europeo, fino al Bambin Gesù, e chi non si è commosso davanti a preghiere ferventi e palloncini liberati nel cielo, lacrime e appelli e udienze private dal Pontefice romano? Mentre nel conflitto sulla norma, che sottraeva a mani pietose e non accanite la cura di una dormiente e decideva di procedere alla disidratazione e alla denutrizione dopo ventisei anni, in una struttura riabilitativa ordinaria di tipo religioso, è prevalsa anche nella chiesa una divisione e un'incertezza a cui facevano riscontro le certezze del fronte avverso in nome del padre e della sua battaglia eutanasica: nessuno si è veramente commosso per l'offerta d'acqua sul sagrato del Duomo di Milano alla vigilia della disidratazione forzata della giovane donna.

Queste cose non si risolvono nei conflitti, che possono illuminarne il significato ma non trovano mai la felicità della soluzione giusta. Di più. Queste cose non si risolvono, punto. Appartengono a una zona grigia di decisione riservata e medica e familiare, discreta e non generalizzabile. Ma quando si tratti di una volontà di salvezza accanita e di un bambino si trovano i modi per formare un esercito benedicente che la invoca, e questo non è in sé certo un male. Sebbene debba essere chiaro che la sordità morale di fronte ai temi vitali del potere di decisione per la morte, per la selezione eugenetica, per la salute riproduttiva cosiddetta, è una cosa, la danza sciamanica intorno a un accanimento terapeutico è un'altra cosa. � 

(Articolo pubblicato sul n° 20 di Panorama, in edicola dal 3 maggio 2018, con il titolo "Che cosa non mi ha convinto della battaglia su Alfie Evans")


Per saperne di più: 

  • Alfie e la necessità del rispetto

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Giuliano Ferrara