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È morto Castro, è morto un dittatore

Ha fatto la storia del Ventesimo secolo. Ma con Il mito della cultura diffusa e della buona sanità ha oscurato la violazione continua dei diritti civili

È morto Fidel Castro. È morto un dittatore. È morto uno degli uomini che hanno fatto la storia del Ventesimo secolo. Un secolo crudele. È morta un’icona della politica mondiale ma anche italiana.

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Personalmente ho due ricordi. Il primo tanti anni fa in una vacanza a Cuba, la reazione rabbiosa e indignata di un gruppo di musicanti di strada ai quali mia moglie aveva chiesto di cantare “Hasta siempre” (al comandante Che Guevara). Erano dissidenti: non tutti a Cuba erano felicemente comunisti.

Il secondo, una giornata in casa di Andy Garcia a Los Angeles, nel cuore della sua famiglia costretta all’esilio, tra i ricordi dell’attore sul filo del rimpianto. Lui eseguiva al pianoforte, a tratti in lacrime, le canzoni della sua patria perduta.

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L’icona di Fidel Castro ha accompagnato la mia generazione attraverso più di mezzo secolo. Era il Capodanno 1959, un anno prima della mia nascita, quando le forze rivoluzionarie entrarono all’Avana e Batista scappava da Cuba. Due anni dopo, in seguito al fallito sbarco di dissidenti cubani nella Baia dei Porci con l’appoggio degli Stati Uniti, Fidel annunciava che Cuba avrebbe adottato il comunismo e assumeva l’appellativo di Lìder Màximo.

Tre anni ancora e Giangiacomo Feltrinelli, l’editore morto nell’esplosione dell’ordigno che stava collocando su un traliccio, volò a Cuba, lo incontrò e nel 1968 andò in Sardegna, con l’idea di trasformarla in una “Cuba del Mediterraneo”.

Fidel fu molto attento ad alimentare non tanto il culto della personalità, quanto l’idea che Cuba fosse un’isola felice, rivoluzionaria, allegramente antimperialista, orgogliosamente comunista a ridosso della Florida, con un programma possente di nazionalizzazioni delle terre e delle industrie (lui figlio di un ricco possidente terriero cresciuto dai gesuiti e nei collegi più esclusivi), e di alfabetizzazione, progresso scientifico e politica sanitaria.

Un po’ come l’Unione Sovietica, spacciata dai comunisti dell’Europa occidentale (Italia compresa) come modello di democrazia popolare e di progresso sociale. Tutto il male che di Cuba si poteva dire (ma non sempre si diceva), nella vulgata della sinistra alla Bertinotti-Minà era frutto della cattiveria dell’embargo statunitense.

Fidel era Cuba e Cuba era una bandiera. Il volto più popolare quello di un guerrigliero morto: Che Guevara. In Italia, da ragazzo (nel 1977), le foto e immagini di Che Guevara erano stampate sulle magliette dei compagni (di scuola) che impedivano di entrare in classe imponendo l’autogestione, o che si confrontavano fisicamente coi fascisti (intesi in un’accezione molto ampia che comprendeva, fra gli altri, giovani liberali e forze dell’ordine) a suon di pugni, sprangate e qualche pistolettata.

Il ’68 fu un’epopea positiva per i filo-castristi d’Italia, ma comportò la distruzione della cultura del merito, pregiudicando il futuro di almeno una generazione (ma non di tanti post-sessantottini da salotto che riuscirono a sistemarsi con spregiudicata abilità nei crocevia del potere universitario, editoriale, mediatico, politico, giudiziario, imprenditoriale…).

Fidel era un capo illuminato, Che Guevara un campione della libertà, ed entrambi un vessillo antimperialista e anti-americano di non allineati che sventolavano la bandiera rossa. Batista, predecessore di Fidel, l’unico da ricordare come dittatore. Il dissenso cubano quasi considerato un artificio, un’invenzione della propaganda yankee.

In realtà, il comunismo di Fidel era una scelta strategica di alleanza con l’Unione Sovietica per contrastare l’embargo degli Stati Uniti, e il Lìder Màximo il capo di un regime monopartitico. Qualsiasi forma di dissenso o opposizione era bollata come contro-rivoluzione al soldo degli americani.

Il mito della buona sanità, della cultura diffusa, del cinema e dei brevetti, parzialmente vero, oscurava completamente le denunce dei dissidenti che testimoniavano assenza di libertà di stampa e di pensiero, repressione, licenziamenti politici, incarcerazioni. Si andava in prigione anche perché omosessuali.

Nel 1953, al processo per l’assalto alla Caserma Moncada nel quale fu poi condannato a 15 anni di prigione, il giovane avvocato-guerrigliero Fidel Castro aveva declamato un discorso memorabile: “La storia mi assolverà”. Presto i cubani avrebbero dovuto ascoltare, per più di trent’anni, i discorsi lunghi ore di Fidel.

La storia, in effetti, lo ha già assolto. La sua immagine è salva. Per molti è addirittura un eroe. Anche adesso, sui social dilaga il saluto, l’omaggio politico-militare della sinistra italiana al Lìder Màximo: “Hasta la victoria, siempre”.
Ma la realtà, anche se politicamente scorretta, è che è morto un dittatore.  
 

Fidel Castro
Getty Images

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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