Orban
(Ansa)
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Orban vince e si tiene un'Ungheria più debole e più sola

Il successo nelle elezioni di ieri non deve ingannare. Rispetto al passato sono cambiate tante cose nel panorama politico locale ed internazionale

Era il primo gennaio 2012 quando la nuova, e subito contestata, Costituzione ungherese entrava in vigore. I segnali di una svolta «autoritaria» - così com’è stata definita da molti osservatori internazionali - c’erano già tutti: la nuova legge fondamentale ha ristretto di fatto la separazione dei poteri dello Stato, inserito una legge elettorale anti-partiti, escluso i matrimoni omosessuali, aumentato i poteri di polizia. Ma, soprattutto, ha eliminato la dicitura «Repubblica» accanto alla parola «Ungheria».

Il tutto è opera di Viktor Orbán, premier nonché leader del partito nazional populista Fidesz e dominus della politica ungherese più o meno da vent’anni. Forte di una maggioranza assoluta in parlamento, Orbán era riuscito a completare il suo disegno autoritario già nel 2013, facendo approvare all’organo legislativo un pacchetto di emendamenti alla nuova Costituzione.

A ciò sono seguite una serie di affermazioni elettorali che hanno visto crescere Fidesz fino a ottenere risultati plebiscitari, come hanno dimostrato prima il voto alle elezioni europee - quando il partito del premier ha conquistato il 52% delle preferenze - e come confermato ora dalle politiche, dove ha superato il 54%. Ma i segnali dell’affermazione definitiva dell’uomo forte d’Ungheria c’erano già dal 2014, quando i conservatori avevano raggiunto una maggioranza di due terzi nel Parlamento, mentre l’estrema destra xenofoba e antisemita del partito Jobbik («i migliori») aveva superato il 20% dei voti.

Eppure, anche se non sembra, la situazione oggi è ben diversa da allora: la guerra in Ucraina ha cambiato molte cose. Sì, è vero, la popolazione si è stretta intorno al suo leader e ha scelto la sicurezza della continuità. Ma proprio dagli estremisti viene il segnale più forte di discontinuità, con la destra di Jobbik che alle politicheha scelto di correre con l’opposizione, dopo essere stata per anni la più fedele alleata di Orbán.

«Purtroppo, la vittoria del premier è una buona notizia per Putin. Siamo diventati il suo cavallo di Troia in Europa. E ci stiamo trasformando sempre di più in un’autocrazia asservita alla Russia» dice oggi Marton Gyongyosi, vicepresidente di Jobbik ed europarlamentare. «I Paesi Visegrad e in particolare la Polonia, storica alleata, ci hanno voltato le spalle. Siamo sempre più soli. In Europa e nella Nato».

Già Visegrad, la Santa alleanza dell’Est Europa che raduna quattro Paesi membri Ue – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – uniti da posizioni euroscettiche e rigide in tema d’immigrazione. E chi se lo aspettava che proprio all’interno di questi Paesi «duri e puri» provenisse la principale crepa dell’Unione? «Merito della guerra» si dirà. Resta il fatto che è stato proprio il tema dei migranti ad aver fatto conoscere Viktor Orbán alle masse europee e ad averlo reso bandiera dei sovranisti. Anche per questo, il quotidiano statunitense Politico aveva scritto di lui: «Orbán è ora il talismano della destra mainstream dell'Europa».

Di certo, la politica del premier in materia di migrazione è proseguita negli anni senza sosta (l’ultima dimostrazione di forza in tal senso è stata la costruzione di una recinzione di ben 175 km lungo il confine con la Serbia a partire dal 2015). E proprio la paura del «nemico alle porte» ha compattato intorno a Orbán la popolazione, che ha creduto alle parole del premier quando ha affermato che l’opposizione avrebbe trascinato l’Ungheria in guerra. Cosa che il governo non può proprio permettersi.

Parzialmente isolata a Bruxelles, l’Ungheria ha infatti trovato da tempo un’ottima sponda in Mosca e Orbán stesso ha coltivato un suo personale rapporto con Vladimir Putin. Il parlamento ungherese, non a caso, aveva approvato negli anni tra il 2010 e il 2014 una legge «filorussa» che puntava ad accelerare la costruzione del gasdotto South Stream con l’aiuto del colosso russo Gazprom. Una mossa proposta dall’esecutivo ungherese che aveva dimostrato la volontà del premier di ignorare del tutto regole e cavilli imposti dall’Unione Europea - che invece lavorava per bloccare la messa in opera delle condotte - per favorire l’amico al Cremlino. Tale legge permetteva di velocizzare la costruzione del gasdotto, ignorando i richiami della Commissione.

Tuttavia, nel dicembre 2014 questa politica ha subìto una grave battuta d’arresto, quando la Russia, per bocca dello stesso presidente Putin, ha annullato i suoi piani per il gasdotto South Stream. Nel medesimo anno, però, il governo Orbán aveva intanto approvato un piano da 10 miliardi di euro, in accordo con Mosca, per il finanziamento di due nuovi reattori alla centrale nucleare di Paks. A dimostrazione che il rapporto speciale con Mosca era destinato a proseguire.

Ancora nel 2019, il governo ungherese si confermava il miglior alleato del Cremlino all’interno del gruppo di Visegrad: lo dimostra la scelta di ospitare a Budapest l’International Investment Bank (Iib), istituto bancario erede della Banca internazionale degli investimenti del Comecon sovietico, ripristinato dal presidente russo nel 2012.

Il fatto che Mosca lo avesse voluto ricostituire all’interno dell’Unione Europea con la complicità del leader ungherese, è stato letto come un potenziale «cavallo di Troia» del Cremlino nel cuore dell’Europa orientale, visto che l’istituto è da sempre guardato con sospetto dai vertici Ue e Nato, in ragione delle non trasparenti operazioni finanziarie, che sfuggirebbero ai controlli delle stesse autorità ungheresi, e che garantirebbe immunità a funzionari e diplomatici non europei in territorio Ue. E di «cavallo di Troia» ha parlato anche la destra di Jobbik: «Da anni i documenti, i segreti che dividiamo con la Ue e la Nato sono finiti nelle mani di Putin» ha dichiarato Gyongyosi.

Viktor Orban, insomma, si sente sempre più forte e indipendente, e meno vincolato dalle disposizioni di Bruxelles e di Washington; lavora per rendere l’Ungheria un Paese autonomo da qualsivoglia potere che non risieda a Budapest; e si è vincolato ai destini della Russia. Il che lo rende l’anello debole di una catena con cui Bruxelles vuole cingere il guerrafondaio Putin, specie dopo l’invasione dell’Ucraina.

E pensare che gli esordi di Orban indicavano il contrario: nel giugno del 1989, a pochi mesi dal crollo del Muro di Berlino, aveva arringato alla folla per chiedere che le truppe sovietiche lasciassero il Paese, dimostrando un coraggio fuori dal comune e suscitando applausi a scena aperta. Questo lo aveva reso quanto mai popolare, al punto da ricevere finanziamenti da parte del magnate George Soros, da sempre nel mirino dei sovranisti (gli stesso che oggi vedono in Orbán il loro alfiere).

Quando il Muro crolla, Viktor Orbán fa immediato ritorno in Ungheria per candidarsi in politica. Il suo partito Fidesz propone ricette liberiste, si dichiara contro l’ingerenza della Chiesa negli affari di stato e promuove la democrazia. Tre anni dopo, è già capo indiscusso di Fidesz. Cosa che nel 1998 lo porta alla sua prima investitura da premier. Sono gli anni in cui l’Ungheria entra nella Nato e il premier chiede di esser parte dell’Unione Europea. Per mostrarsi più accomodante e in linea con il sentimento del popolo europeo, inizia anche a blandire la Chiesa cattolica, al punto che nel 1996 sposa nuovamente sua moglie, stavolta con rito cattolico.

Queste capriole la dicono lunga sul fiuto politico, ma soprattutto sull’opportunismo del premier ungherese: uno che ha studiato filosofia politica liberale inglese a Oxford e ha messo in pratica il suo esatto contrario. Che prima ha accettato di buon grado i finanziamenti di Soros e poi lo ha rinnegato pubblicamente. E, ancora, che ha posizionato Fidesz a destra solo perché a sinistra c’erano già molti partiti, mentre là lo spazio era sempre rimasto vuoto. Che condannava i metodi sovietici e i carri armati a Budapest, ma oggi non disapprova l’invasione dell’Ucraina. Ecco, l’amico di Vladimir Putin è tale solo in ragione della convenienza temporanea sua del suo Paese. Il che è anche la ragione principale per spiegarne il successo.

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Luciano Tirinnanzi