Viaggio nello strano Natale di Israele
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Viaggio nello strano Natale di Israele

Il cuore agli ostaggi, le orecchie alle sirene, gli occhi pieni di terrore. Diario di una settimana in un paese che prova a resistere, pieno di orgoglio

Diario di bordo: Giorno 1

Gli occhi delle donne israeliane li ho immaginati mentre mi trovavo a 5 chilometri da Gaza, esattamente nel Kibbutz di Be’eri, dove è avvenuto l’attacco più feroce del 7 ottobre. Quel giorno nel villaggio hanno perduto la vita circa 90 persone e molte donne sono state violentate e uccise senza nessuna pietà. I racconti di chi rimane sono feroci, inumani, vandalici e mentre ascolto quello di Haniv Hegyl, componente del Kibbutz di Be’eri e fondatore di Memoria 7 10, mi accorgo della sua sofferenza ma anche della volontà di ricordare il massacro che ha cancellato per sempre la spensieratezza di molte vite. Manca all’appello Carmen, mi dice un altro attivista. “Vogliamo che torni a casa”.

Carmen è una donna di 39 anni, era a Be’eri per caso, era andata a trovare sua sorella e la sua nipotina. Ma di lei, nessuna notizia. Il tormento delle tragedie vissute a Be’eri, l’odore delle case bruciate insieme al silenzio assordante tra le vie abbandonate dove il miagolio dei gatti suona a ripetizione, mi aveva convinto che la decisone di spostarsi sul Mar Morto, il lago salmastro curativo e rigenerante a 438 metri sotto il livello del mare, era la migliore per consentirmi di staccare dal dramma. Volevo dimenticare, scappare dalla ferocia. Ma in Israele sono troppe le vittime di quel 7 ottobre.

Sono 200.000 le famiglie profughe che hanno dovuto lasciare i 18 insediamenti e le due città: Shderot ed Ofakim colpite dagli attacchi dei terroristi di Hamas. Adesso che gli uomini combattono, ci sono donne e bambini che vivono lontani da casa e protetti in strutture alberghiere. Per questo, quando sono arrivata sulle rive occidentali del Mar Morto, ho scoperto che nell’albergo del Kibbutz dell’oasi di En Gedi, dove alloggiavo, c’erano profughi e volontari. E tra tutti, c’erano anche le donne del kibbutz di Be’eri i cui occhi li avevo immaginati mentre ero nelle loro case devastate e depredate dell’armonia familiare. Incontrarle a En Gedi è stato come rinascere per scoprirne la bellezza e la fierezza, oltre che il coraggio portato all’ennesima potenza unicamente per dare protezione ai loro bambini. In Israele, quasi tutti gli alberghi si sono adattati a luoghi di accoglienza per onorare chi ha subito la violenza e il trauma. Risalendo a Nord, ho raggiunto il villaggio di Mtzoke Dragot, dove il super lusso dello yoga conquista gli appassionati più esigenti. E’ qui che nelle grandi tende, dove in genere si fanno ritiri e meditazione, i bimbi del 7 ottobre si mettono in cerchio e attraverso la respirazione rilassano il sistema nervoso. Sono coccolati e c’è una grande attenzione nei loro confronti. Vanno a scuola e fanno sport. Lo Yoga aiuta anche le mamme e i papà che hanno subito gravi traumi. Passando per Masada, dove il silenzio riempie ogni ambiente della cittadella fortificata e voluta dal Re Erode, ci sono pochi gruppi di turisti locali a regalare la speranza che tutto torni alla normalità. Una volta arrivata a Ein Bokek, ho visto i mega alberghi della costa diventare palestre di vita, pieni e zeppi di bambini e ragazzi. Qui le stanze sono ospitali e molte sono state trasformate in aule scolastiche con banchi, lavagne, libri e poster che parlano di un Israele che va avanti. Nonostante il dolore e i 1200 morti del 7 ottobre, gli israeliani si attivano per aiutarsi reciprocamente e adesso che è in corso la trattativa per la liberazione degli ostaggi, chiedono che i sacrifici di un popolo unito sia ripagato con la loro liberazione e che i profughi possano presto ritornare a casa. “Voglio tornare a casa”. Sono queste le parole di una signora israeliana di origini italiane che in ascensore si racconta chiedendomi soltanto di ascoltarla fino al settimo piano dell’hotel Orient di Gerusalemme, dove sono appena arrivata.

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Rosita Stella Brienza