Coronavirus: "Io, italiano, prigioniero in Cina"
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Coronavirus: "Io, italiano, prigioniero in Cina"

Pablo Casarano, chef italiano vive prigioniero a Nanning, bloccato, come quasi un'intera nazione dal coronavirus. Il racconto della sua vita da "prigioniero" - Lo speciale sul Coronavirus

Improvvisamente l'ordine, il silenzio. Più cielo, più strada, più spazio per tutti. Ma i «tutti» non ci sono. Una città da sette milioni di abitanti dove la pace è come una malattia. Anzi, è una malattia. Pablo Casarano ha 35 anni e vive da tre anni a Nanning, capoluogo della regione autonoma del Guangxi, Sud-est della Cina, non lontano dal Vietnam, primavera tutto l'anno. A Milano si occupava di immobili, tornava a casa stressato, si rompeva da morire. Qui fa lo chef, insegna a cucinare i dolci italiani, poi la notte si toglie il grembiule, mette le cuffie e fa il dj nel club più in della città. Ha scelto il lavoro manuale e lo ha scelto anche bene.




Mentre chatta, fotografa, gira video e parla con Panoramain realtà è lì che conta. Conta i giorni che lo separano dal matrimonio in Italia con Moqi, 22 anni, studentessa e videomaker di Pechino. Conta le settimane rinchiuso in una specie di centro commerciale. Conta il numero dei contagiati dal coronavirus, che qui «è tutto sotto controllo, ma intanto in città siamo a 200», su sette milioni di abitanti. Conta i giorni che ci metterà il consolato italiano a dar loro i visti per rientrare a Milano.

«È come nei film catastrofici» attacca Pablo «dove tutto peggiora di giorno in giorno, ma in modo misterioso». Quei film dove le strade si svuotano, la gente sta dietro le finestre e aspetta i bollettini ufficiali. Ma poi chi ci crede ai bollettini, ai continui rinvii del famoso ritorno alla normalità. Intanto tutto viene sterilizzato, tutti hanno la mascherina, la morte non si vede ma c'è. Certo, la peste era peggio, però questo regime asettico forse fa ancora più paura.




La vita di Pablo e Moqi prima del coronavirus non era male. Tanto lavoro, tanto studio, tanti progetti, molte soddisfazioni. Pablo l'ha presa larga, la Cina. Nel 2015 ha mollato tutto ed è andato a Miami a imparare a fare i dolci sul serio, sempre con la doppia della vita dei dj-set e delle consolle, dove ora mixa soulful, house, nu Jazz, funk e ogni tipo di sonorità ricercata e che possa fa sentire i giovani cinesi della classe ricca come se si muovessero tra Londra e New York.

Lavora come un dannato, ma fa quello che gli piace. Ha fatto il cuoco (per il diploma di chef è rientrato in Italia), ha ridisegnato la carta di vari ristoranti, tiene corsi in cui insegna ai colleghi cinesi come si fanno dolci al cucchiaio o da forno, si è ben inserito nella ristorazione italiana e non solo, lavora con l'Italian promotion center. Ora, in questo centro nel quartiere più ricco e vivace di Nanning, vive da recluso da tre settimane.




Ai primi di gennaio, Pablo e Moqi avevano già preso i biglietti aerei per andare a Pechino a passare lo Spring festival con la mamma di lei. «Avevamo un po' paura, ma ci servivano i documenti per sposarci e quindi ci siamo bardati con maschera e tutto il resto, dalla testa ai piedi» racconta. A Pechino hanno passato le feste chiusi in casa, «poi siamo tornati a Nanning e il numero dei contagiati continuava a salire, siamo arrivato a 200 e uno era qui in questo comprensorio». La cosa che fa più rabbia? «Moqi e io stiamo benissimo in salute, ma siamo bloccati qui e rischiamo di non poterci sposare fino a quando il governo italiano non sbloccherà i voli».

Strade vuote, spazi pubblici chiusi, disinfestazione preventiva permanente, negozi e ristoranti con la serranda giù. «Molti rischiano di chiudere per sempre perché l'affitto lo devi pagare», anche se il governo si fa carico del 25 per cento delle spese.

Tutto è sotto controllo, ma il ritorno alla normalità è continuamente posticipato. Gli uffici pubblici avrebbero dovuto riaprire il 17 e invece hanno rimandato al 27. Pablo spiega la difficoltà di avere a che fare con le autorità cinesi, anche per chi ha la fortuna di una fidanzata locale: «Loro comunicano solo in cinese, anche se qui noi stranieri saremo circa un migliaio. Un po' di notizie le raccogliamo sui canali inglesi di WeChat, dai vari consolati, mentre le news nazionali sono consultabili online».

E i locali? Sembrano tranquilli. «Leggo le notizie cinesi con il traduttore e tutti gli avvisi delle autorità, che dipingono una situazione sotto controllo» prosegue Pablo, che però qualche domanda se la fa, specie quando guarda la fidanzata: «Lei si sente serena, ma io vedo che nonostante abbiano bloccato la nazione, i numeri salgono». Qualche dubbio viene un po' a tutti, la prova è che, come racconta Pablo, «i cinesi non vedono il governo come il Salvatore, piuttosto sono ammirati da questi medici eroici che fanno turni da 10 ore e rischiano la vita ogni giorno».

Pablo ci saluta con una speranza e una preoccupazione. La prima è che le autorità italiane sblocchino i visti al più presto, la seconda è che da noi «non monti un'ondata di notizie false e di razzismo contro i cinesi. Come si può essere così ignoranti e superficiali da additare, insultare e perseguitare una popolazione che sta soffrendo una situazione del genere?» si chiede. n

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Francesco Bonazzi