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Esplosioni a Gaza City nel corso dei bombardamenti israeliani il 18 maggio 2021 (Getty Images).
Dal Mondo

La poltrona di Netanyahu e il potere di Hamas dietro il conflitto con Gaza

Inchiesta sui motivi per cui è riesplosa la violenza. Thomas Friedman cita questioni di politica interna israeliana e palestinese. Edward Luttwak punta il dito contro il movimento islamico. Vittorio Emanuele Parsi ricorda i processi di Bibi. E la ricercatrice Ispi Annalisa Perteghella prevede nuove elezioni.

Dopo anni di relativa quiete, il conflitto arabo-israeliano è riesploso con virulenza. Non c'erano state proteste di massa quando, nel 2017, il presidente Donald Trump aveva spostato l'ambasciata Usa a Gerusalemme. Le piazze erano rimaste tranquille anche nel 2020, quando Israele aveva normalizzato le relazioni con quattro Paesi arabi. E invece nella primavera 2021, a sette anni dal lancio dell'operazione israeliana «Margine Protettivo» a Gaza e a quasi 21 dalla seconda Intifada, israeliani e palestinesi si sono improvvisamente l'uno contro l'altro armati, con lancio di razzi, bombardamenti a tappeto e uccisioni di donne e bambini.

Ma com'è possibile che le tensioni si siano riaccese tutte d'un botto in piena pandemia, al punto da sfociare in guerra aperta? Le motivazioni che i media di tutto il mondo adducono sono le stesse, un crescendo iniziato con l'annunciato sfratto di famiglie palestinesi dal quartiere di Gerusalemme Est Sheikh Jarrah, seguito dall'irruzione da parte della polizia israeliana nella moschea Al Aqsa il primo giorno del Ramadan e dalla chiusura della piazza davanti alla porta di Damasco, culminato con l'ultimatum di Hamas a Israele, seguito dal lancio di razzi (4.000 secondo lo Stato ebraico) e dal conseguente attacco aereo israeliano su Gaza.

Il bilancio di 10 giorni di combattimenti è tragico: finora a Gaza sono state uccise almeno 227 persone (fra cui oltre 100 donne e bambini), secondo il ministero della Salute dell'exclave palestinese controllata da Hamas. E, per Israele, sono stati uccisi anche almeno 150 militanti islamici. I servizi sanitari israeliani denunciano invece l'uccisione nello Stato ebraico di 12 persone, fra cui due bambini.

Un'escalation inimmaginabile solo due mesi fa. Sul fronte palestinese, a marzo «Gaza stava lottando per superare un'ondata di infezioni da coronavirus» spiega sul New York Times Patrick Kingsley, capo dell'ufficio di Gerusalemme. «La maggior parte delle principali fazioni politiche palestinesi, incluso Hamas, stavano guardando alle elezioni legislative palestinesi previste per maggio, le prime in 15 anni. E a Gaza, dove il blocco israeliano ha contribuito a un tasso di disoccupazione di circa il 50%, la popolarità di Hamas stava diminuendo mentre i palestinesi parlavano sempre più della necessità di dare priorità all'economia rispetto alla guerra».

Sul fronte israeliano, si stava cercando di formare un governo, dopo il tentativo fallimentare di Benjamin Netanyahu. E stava per accadere qualcosa di inaudito in 73 anni di storia. Dopo la remissione del mandato da parte di Bibi a Reuven Rivlin, il presidente israeliano l'aveva affidato a Yair Lapid. Sotto la guida del politico laico-centrista, affiancato dall'esponente della destra religiosa Naftali Bennett, in Israele stava prendendo forma una coalizione di unità nazionale che, per la prima volta, avrebbe incluso un partito arabo israeliano musulmano. Una débâcle per Netanyahu, che, sotto processo per corruzione, frode e abuso di fiducia, se ritenuto colpevole potrebbe essere condannato a diversi anni carcere. «Non siamo mai stati così vicini alla fine dell'era di Netanyahu» aveva scritto il 20 aprile l'analista Ben Caspit sul sito Al Monitor. E aveva aggiunto: «Il primo ministro è un animale ferito, la cui attenzione è concentrata su un unico obiettivo: salvarsi».

Politica interna palestinese e politica interna israeliana: è un'interessante traccia da seguire per capire l'improvvisa esplosione di violenza in Medio Oriente. Thomas Friedman, l'opinion leader statunitense che ha vinto tre premi Pulitzer e conosce il Medio Oriente a menadito (il suo libro Da Beirut a Gerusalemme, Mondadori, è una lettura obbligata per i cultori della materia) non ha dubbi. «Bibi e Hamas hanno sfruttato o alimentato le loro folle per impedire che un governo di unità nazionale senza precedenti emergesse in Israele - un gabinetto che per la prima volta avrebbe messo assieme ebrei israeliani e arabi musulmani israeliani» ha scritto il giornalista sul New York Times il 16 maggio.

Il partito arabo israeliano che sarebbe potuto andare al governo di Israele era la Lista Araba Unita, conosciuta anche come Raam, guidata dal dentista Mansour Abbas. Già segretario generale della coalizione dei partiti arabi israeliani (la Joint List, focalizzata sul nazionalismo palestinese ), lo scorso gennaio il politico arabo israeliano si era staccato dalla coalizione dei partiti arabi israeliani, fondando la Lista Araba Unita. E ha conquistato quattro seggi alla Knesset, diventando il kingmaker della politica israeliana.

La prospettiva di un partito arabo al governo in Israele faceva inorridire tanto Netanyhau quanto Hamas. Come spiega Thomas Friedman, «sia Bibi sia Hamas hanno mantenuto il potere ispirando e cavalcando onde di ostilità verso "l'altro". Fanno ricorso a questa tattica ogni volta che si trovano politicamente nei guai». Due estremi che si incontrano, secondo il giornalista: «Hamas e Bibi non si parlano. Non ne hanno bisogno. Ognuno di loro capisce di cosa ha bisogno l'altro per rimanere al potere (...). L'ultima replica del loro brutto spettacolo di lunga data è andata in scena ora, perché entrambi (...) volevano distruggere la possibilità di un cambiamento politico prima che questo potesse distruggerli». E per salvarsi, sostiene Friedman, avrebbero fatto saltare il banco. Mettendo fine a un esperimento che avrebbe potuto rompere «per sempre lo stampo della politica israeliana», portando «a più progresso e integrazione tra ebrei e arabi, e a tentativi di affrontare la disoccupazione e l'umiliazione, specialmente tra i giovani arabi israeliani, e non aggravarli».

Una chiave di lettura rifiutata dagli ebrei conservatori statunitensi. Dagli Stati Uniti, l'analista Edward Luttwak dice a Panorama: «Friedman non ha notizie, nessuno gli parla. A muoverlo è solo il suo odio per Trump e per Netanyahu, anche per il fatto che ambedue non gli rilasciavano interviste». Ma se Friedman ha torto, come si spiega l'improvvisa esplosione di violenza dopo sette anni di quiete? Riposta telegrafica di Luttwak, che su Twitter si definisce «storico e ranchero»: «Hamas e la Jihad islamica, avendo accumulato 14.000 razzi e sapendoli vulnerabili con il passare del tempo all'intelligence, aspettavano l'occasione per usarli. Occasione che si è presentata dopo il tafferuglio alla moschea di Al Aqsa». Sul movimento islamico, Luttwak dà indirettamente ragione a Friedman: «Hamas ha colto l'opportunità di Al Aqsa per mostrare le sue credenziali islamiche (con la Jihad al servizio dei suoi pagatori iraniani) e per fermare il discorso sulle elezioni. Eletta nel 2006, Hamas non vuole altre elezioni, mai».

Ma che cosa ne pensano gli analisti italiani? Un vecchio collaboratore di Panorama, il professor Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, è d'accordissimo con Thomas Friedman. «Netanyahu ha scelto questa via per oscurare e condizionare i processi e le inchieste per corruzione (cioè per aver rubato al suo stesso popolo) che lo riguardano» osserva. «Ma anche per mettere in difficoltà l'amministrazione Biden che, pur considerando Israele il suo alleato principale nella regione, non ha nessuna intenzione di avallare la deriva sempre più apertamente razzista e violenta di questo governo».

Il docente dell'università Cattolica commenta, senza mezzi termini: «Per salvarsi, non c'era niente di meglio di una "bella guerra" a Gaza, un facile "trionfo" corredato da una sfilza di cadaveri arabi da esibire con un gusto macabro sul quale neppure Vespasiano o Tito avrebbero potuto eccepire, e la solita rivendicazione del "diritto alla sicurezza di Israele" (la sola potenza nucleare del Medio Oriente), come se qualcuno minacciasse davvero più di estinzione lo Stato di Israele (a parte il regime di Teheran, che mi pare abbia ben altre preoccupazioni). Meno calcolato, da parte di Netanyahu, il fatto che i razzi di Hamas fossero in grado di perforare il sistema anti-missile Iron Dome. Ma anche queste innocenti vittime israeliane (comunque inaccettabili e ingiustificabili, tanto quanto quelle palestinesi) saranno usate per giustificare una strage ancora maggiore tra i palestinesi».

Anche Annalisa Perteghella, ricercatrice Ispi specializzata in Medio Oriente, è sostanzialmente d'accordo con l'editorialista del New York Times. «Condivido l'analisi di Friedman. Effettivamente, nei giorni precedenti lo scoppio vero e proprio delle ostilità, c'era stata da parte di Netanyahu la volontà di sfruttare il momento per portare acqua al proprio mulino. Però poi è stato Hamas a lanciare un ultimatum irricevibile e poi a iniziare a sparare razzi» spiega Perteghella. «Anche Hamas, come Netanyahu, si è mosso per motivi interni, per ergersi a patron della causa palestinese e delegittimare ulteriormente Fatah. A quel punto Netanyahu, esattamente come le altre volte (perché questo è un film che si ripete ciclicamente), ha intravisto la possibilità di rafforzare la propria posizione, al contempo impedendo la formazione del governo di Lapid. Ecco perché il conflitto si sta prolungando».

Ma non ci sono segnali di distensione? «Hamas è adesso disponibile al cessate il fuoco, anche perché sta avendo perdite importanti, mentre Israele non lo è ancora» risponde l'analista Ispi. «Anche perché di fatto, nonostante le pressioni stiano un po' montando, lo Stato ebraico trova via libera da parte della comunità internazionale. Joe Biden negli Stati Uniti non è che si sia tanto esposto». A onor del vero, neanche l'Unione europea si è tanto esposta... «Esatto. Quindi Netanyahu non si sente particolarmente sotto pressione per fermare l'escalation. Nei prossimi giorni probabilmente la pressione aumenterà, perché la situazione non è sostenibile. Nel frattempo, però, chiaramente Bibi cercherà di massimizzare il più possibile per il proprio ritorno politico interno».

La ricercatrice è d'accordo con Friedman anche sull'equiparazione Hamas/Netanyahu. «Entrambi hanno bisogno l'uno dell'altro. Ad Hamas avere di fronte un Israele cattivo permette di legittimarsi con i palestinesi. Per lo Stato ebraico, avere Hamas in posizione di forza è altrettanto conveniente perché lo assolve dalla necessità di impegnarsi in un processo di pace. Il suo rafforzamento gli dà l'alibi per poter dire che con una formazione di terroristi non negozia» spiega Perteghella. «Probabilmente anche questo round di violenze non porterà da nessuna parte. Da anni ormai Israele sta andando sempre più a destra, verso i partiti dell'ortodossia ebraica. E, dopo i razzi lanciati da Hamas, il consenso verso tali partiti crescerà ancora di più».

Quindi la coalizione di unità nazionale è già morta prima di essere nata? «Credo proprio di sì» risponde l'analista Ispi. Allora Netanyahu avrebbe raggiunto il suo scopo? «Allo stato attuale, lo scenario più probabile è quello di un ulteriore round elettorale: il quinto. Lapid ha ancora una ventina di giorni. Bisogna aspettare che scada il suo mandato. E se non riesce a formare un governo, cosa alquanto probabile, Israele dovrà tornare al voto». Per la quinta volta in due anni.

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Elisabetta Burba