Le odiose lezioni di libertà dagli «ultras» del lockdown
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Le odiose lezioni di libertà dagli «ultras» del lockdown

Il conflitto ucraino ha provocato il più grande dei cortocircuiti: politici e media che hanno suonato la grancassa delle restrizioni Covid si scoprono paladini della democrazia e dei diritti. Una giravolta schizofrenica che genera altra sfiducia dei cittadini verso il potere. In edicola il nuovo libro di Daniele Capezzone. (Bomba a orologeria, Piemme)

Per gentile concessione dell’editore Piemme, pubblichiamo un capitolo da Bomba a orologeria - L’autunno rovente della politica italiana, il nuovo libro del nostro editorialista Daniele Capezzone, disponibile in libreria e nei negozi virtuali da oggi. Alla vigilia di elezioni cruciali, con un Paese spaccato a metà tra chi ormai è assuefatto a soluzioni emergenziali e chi è preda di moti ribellistici, si sente forte il richiamo della vera politica, quella che negli anni della pandemia si è ritratta, lasciando spazio a una ridda di tecnici e commissari, con le conseguenze che conosciamo.

È in atto un cortocircuito clamoroso: politici e media che esaltavano green pass e lockdown, con la guerra sono diventati paladini delle libertà. Lo ha spiegato in modo mirabile la grande Juliet Samuel sul Telegraph, ricordandoci che - nei tempi liberticidi in cui viviamo - quasi non ha più senso parlare dei dettagli: occorre invece concentrarsi sempre sui principi di libertà per opporsi ai nuovi tiranni di Stato. I momenti importanti della nostra vita (un matrimonio, un funerale, le celebrazioni del Natale, ecc.) non sono un «frivolo cocktail party» - ha scritto la commentatrice britannica - che il governo ha il diritto di cancellare con un tratto di penna. Si tratta di passaggi essenziali nella vita delle persone e delle famiglie. Ecco, che ne sa lo Stato delle nostre vite? E come si permette di interferire? Che ne sa se in una famiglia qualcuno ha perso il lavoro, e magari le festività natalizie (al di là del loro significato religioso) dovevano o potevano essere un momento di consolazione e calore speciale? O se c’è stato un lutto, ed era l’occasione per affrontarlo ed elaborarlo insieme? O se qualcuno era malato? O se una coppia stava vivendo una crisi e voleva tentare di salvare il rapporto?

Apparentemente, sono solo piccoli esempi, casi minuti: ma è la nostra vita, è la nostra libertà, è il cuore e il senso stesso della nostra esistenza. E non occorre aver letto Hayek per sapere che è fatale la presunzione dei pianificatori, di chi ritiene che la mano pubblica abbia il diritto e il potere di dirigere le nostre vite come se fossero tutte uguali e tutte «di proprietà» dello Stato. Non c’è dubbio: le crisi espongono il meglio e il peggio di noi, e soprattutto richiamano ciascuno alle proprie radici culturali e di pensiero. E sono in pochi, in questi tempi, a mostrare inquietudine per la libertà. In fondo, ciò che angoscia di più non è l’insensibilità del Giuseppe Conte o del Roberto Speranza o del Mario Draghi di turno, la loro pretesa di normare ogni passo e ogni atto, ma la «normalità», direi quasi la rassegnata naturalezza con cui quasi tutti hanno assistito a questa deriva.

Tutto ciò - mai dimenticarlo - con l’accompagnamento di un coro mediatico assordante, martellante, uniforme. Si sono sottratti un giornale (La Verità di Maurizio Belpietro), due o tre trasmissioni televisive, e un pugno di siti, di commentatori, di voci libere, non di rado mostrificate e ostracizzate, com’è accaduto - nel mio piccolissimo - anche a chi scrive queste pagine. E invece - a reti e testate quasi unificate - per due anni hanno imperversato autentici cavalieri dell’apocalisse mediatica e sanitaria, miliziani del terrore televisivo e medico, apostoli del panico giornalistico ed epidemiologico. Spadroneggiando sui media e iniettando paura, hanno dominato in lungo e in largo, creando e alimentando una situazione i cui effetti - per certi versi - durano ancora oggi.

La beffa più incredibile è arrivata ad aprile di quest’anno quando, a Comitato tecnico scientifico ormai disciolto, qualche membro ha ammesso - a posteriori - l’inefficacia, l’inutilità, se non addirittura la dannosità di non poche delle misure adottate nel biennio precedente. Eppure, perfino in presenza di quelle ammissioni, non si è aperto nessun serio dibattito, non c’è stato spazio per la minima autocritica (politica e mediatica), o almeno per un razionale bilancio finale dei costi e dei benefici. La narrazione unica non doveva e non poteva essere guastata. Unica concessione? Il solito, italianissimo rito dello scurdammoce ’o passato.

E già tutto questo è di per sé insopportabile, per chiunque abbia conservato un minimo di onestà intellettuale. Ma la cosa - ecco il cuore del ragionamento di questo capitolo - è diventata letteralmente schizofrenica quando gli stessi protagonisti politici e mediatici, allo scoppiare della guerra dopo l’aggressione russa all’Ucraina, hanno preteso - oplà - di trasformarsi in impavidi lottatori per la libertà e per la democrazia, in coraggiosi freedom-fighters, in inesausti combattenti in nome del binomio liberty and democracy.

Ecco, capite bene perché parlavo di sputtanamento e di carattere retroattivo di questa perdita di credibilità: ma come puoi pensare di essere credibile e creduto, pure se per caso dici cose giuste e magari perfino ineccepibili, se però fino al giorno prima hai messo sotto i piedi e calpestato le bandiere che oggi vorresti far sventolare?

Di moltissimi politici (e media) italiani non è nemmeno il caso di sottolineare la tragicomica giravolta: fino al giorno prima embedded nella guerra proclamata da Roberto Speranza, lirici del green pass, cantori del chiusurismo, megafoni di ogni restrizione, e il giorno dopo - improvvisamente - impettiti cantori dell’Occidente, delle libertà civili e delle virtù della società aperta. Ma attenzione: perché il tema riguarda quasi tutte le classi dirigenti occidentali, con particolare riguardo per quelle di orientamento «progressista» (con o senza variante «tecnocratica»). Volete l’esempio più paradossale? Quello di uno dei campioni per antonomasia del politicamente corretto, il premier canadese Justin Trudeau: a suo onore, è stato uno dei più accesi sostenitori dell’Ucraina dopo l’aggressione russa, e uno dei più puntigliosi critici dell’autoritarismo putinista. Molto bene, dunque. Peccato che poco prima, nel suo Paese, davanti alla protesta dei camionisti contro le sue restrizioni anti Covid, avesse scatenato lo stato d’eccezione e il blocco dei conti correnti.

[…] Perché mi sono dilungato su questo esempio canadese? Perché spiega bene le torsioni di alcuni politici: prima protagonisti di politiche pandemiche totalmente illiberali, e il giorno dopo - sull’Ucraina - autoavvolti nella bandiera della libertà. Sono state proprio queste scelte che hanno reso molti governi occidentali meno credibili davanti alle loro opinioni pubbliche. O, se volete guardare le cose da una prospettiva solo apparentemente diversa: sono state proprio queste scelte che hanno offerto una comoda (ma va detto: non infondata) giustificazione a chi cercava pretesti e alibi per parteggiare più o meno esplicitamente per Putin.

Torniamo proprio ai media maggiori, quelli cosiddetti mainstream, che farebbero bene a interrogarsi autocriticamente, anziché proseguire imperterriti nel loro approccio sufficiente e patronizing nei confronti dei loro lettori e telespettatori. Non sembra smuoverli (parlo della carta stampata) nemmeno il crollo verticale delle copie vendute, anno dopo anno. Mi auguro che prima o poi li induca a una riflessione almeno questa evidenza: un pezzo sempre più grande delle nostre società non crede più a quelle fonti di informazione nemmeno se per caso dicono il vero. Dopo le balle raccontate per anni sulle crisi finanziarie, sulle banche, su Brexit, su Trump, sulla pandemia, esiste ormai un radicato pregiudizio da parte di segmenti enormi della cittadinanza nei confronti dei media percepiti come «ufficiali». Con i suoi modi favolosamente provocatori, Elon Musk ha sintetizzato tutto in un tweet abrasivo dell’aprile scorso, riportando un sondaggio YouGov relativo alla fiducia dei cittadini verso le principali media organizations (erano incluse nella rilevazione le maggiori tv: Cbs, Abc, Nbc, Fox; i maggiori giornali: Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, e così via). E chi è risultato al primo posto (e con largo distacco su tutti gli altri) in termini di affidabilità? Tenetevi forte: The Weather Channel. Più chiaro di così...

E qui in Europa - comprensibilmente - l’atteggiamento di sfiducia è ancora più netto verso i grandi media, con molti cittadini che si dicono: ma come, mi avete raccontato balle per anni (e in particolare sul Covid nell’ultimo biennio), e adesso dovrei credervi? Naturalmente, è poi surreale anche l’ingenuità della reazione di alcune persone (purtroppo non poche), che non credono più - per dire - al Corriere della Sera o a Repubblica però poi si fidano del «Fiorellino 78» di turno su Telegram, cioè di account improbabili, di fonti avventurose, di canali complottisti.

Anche qui scatta qualcosa di paradossale: tengo l’asticella dello spirito critico giustamente altissima quando si tratta di mainstream media, ma poi la abbasso in modo disarmante davanti ad altre fonti, nell’ingenua convinzione - in questo secondo caso - di stare in mezzo ai «buoni», ad «amici», ad altri «cittadini come me».

E non ci si rende conto del fatto che pure lì possano esserci (anzi: è statisticamente quasi certo che ci siano) avvelenatori di pozzi, in qualche caso spontanei, e in qualche altro spintanei, cioè a loro volta manipolati e eterodiretti da chiunque abbia interesse a veicolare un certo messaggio «alternativo».

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Redazione