«Il carcere ti marchia a vita: cambiamolo»
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«Il carcere ti marchia a vita: cambiamolo»

Un avvocato finito a San Vittore racconta quel che ha visto dietro le sbarre: umanità, intelligenza e sensibilità. Ma anche un mare di occasioni perdute

L'avvocato pensa al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e alla frase che qualche giorno fa gli è sfuggita in diretta tv: «Non ci sono innocenti in galera». Seduto in un caffè, l'avvocato pensa al ministro, scuote la testa e sorride mesto. Perché alcuni mesi fa proprio lui, il nostro avvocato, in una galera è stato rinchiuso davvero, sia pure per meno di una settimana, e poi ha scontato un lungo periodo agli arresti domiciliari. Nei suoi confronti la Procura di Milano ipotizza illeciti nella gestione di alcuni affari, accuse cui il legale si dice innocente. Insomma, l'avvocato sarebbe proprio - e molto probabilmente è - uno dei tantissimi "innocenti in galera" la cui esistenza il ministro Guardasigilli fa finta di negare. Ma di fronte alle domande il professionista si schermisce, svicola, chiarisce che non è di sé che vuole parlare. «No», spiega: «io vorrei parlare proprio del carcere che ho conosciuto».

È un appello generoso, quello che esce dalla bocca del nostro avvocato. È doppiamente generoso, anzi, perché il professionista non intende raccontare o criticare la sua vicenda giudiziaria, né vuole chiedere solidarietà o denunciare soprusi: al contrario, preferisce restare anonimo. Parla soltanto di una vita trascorsa a studiare e a lavorare, di una bella famiglia, di figli che studiano. Ma quel che gli preme davvero è fare emergere ciò che ha scoperto nelle giornate trascorse dietro le sbarre di San Vittore. «La gente non lo sa», dice, «ma dentro ai muri di una prigione non c'è soltanto la sofferenza: c'è soprattutto un'umanità incredibile e sorprendente. C'è tantissima umanità tra i reclusi, anche in quelli apparentemente più inquietanti, e ce n'è una dose addirittura sovrumana tra gli agenti della polizia carceraria, che pure sono sottoposti a turni massacranti e sono veri reclusi di seconda categoria. Ho trovato ovunque e in tutti rispetto, intelligenza, sensibilità».

L'avvocato parla quasi con affetto degli infermieri che lo rincorrevano nei corridoi per dargli le pillole contro il diabete. Ricorda il diffuso senso di pentimento, la solitudine e la solidarietà. Il suo racconto accarezza, gentile, alcuni volti senza nome che si possono immaginare duri, ispidi, incattiviti: i compagni di cella e quelli delle ore d'aria. Personaggi quasi da film. «Dietro le sbarre ho incontrato l'inventore dei furti ai Bancomat», sorride l'avvocato, «un vero genio. Aveva scoperto che le macchinette distributrici di contante contengono un certo tipo di gas. Così aveva studiato e scoperto che c'è un altro gas che al contatto esplode. Infilava quella sostanza nella fessura del bancomat, aspettava la piccola detonazione e i soldi uscivano dalla fessura, gli cadevano da soli tra le mani».

Uno dopo l'altro, i ritratti dei reclusi tracciati dalla voce dell'avvocato sembrano quasi comporre una strana antologia di Spoon river. «C'era uno che aveva ucciso la fidanzata, e in cella scriveva lettere d'amore per gli altri detenuti. Anche io lo facevo: la scrittura in conto d'altri è un'attività importantissima, in galera…». E poi? «Poi c'era quello con il volto coperto d tatuaggi: sognava di uscire da San Vittore e di andare a occupare una casa del Comune per trasformarla in albergo per immigrati». E poi? «Poi c'era lo spacciatore marocchino. In prigione lavorava e incassava poche centinaia di euro al mese. Per vivere gli bastava davvero nulla, così spediva tutto il resto a casa. Diceva continuamente: da qui io non voglio più uscire, che cosa esco a fare? Tornerei di certo a vendere droga…».

Ma i ritratti sono soltanto un prologo, una premessa, un'introduzione al tema che più sta a cuore al nostro avvocato. Che è la rieducazione inesistente. «Quando entri in carcere», dice, «sei marchiato a vita. Entri in cella e perdi ogni speranza. Non per l'ambiente che c'è dentro, ma per quello che ti aspetta là fuori». Non ci sono percorsi di rieducazione, reinserimento. I reclusi, agli occhi dell'amministrazione giudiziaria, sono spesso numeri e niente più. «Se lo scopo delle prigioni è davvero la rieducazione, come prescrive la Costituzione, allora sarebbe meglio chiuderle. Lì dentro o ti rieduchi da solo, con il pentimento, oppure lo fai con i compagni di cella. In realtà, quando esci, scopri di essere marchiato a fuoco. E il sigillo dell'infamia non lo cancelli più».

L'ineluttabilità della recidiva, questo è il vero problema. La recidiva e la crudele inefficienza del sistema. Nelle 190 carceri italiane ci sono 60.552 detenuti ognuno dei quali, incluse le spese per la sicurezza, costa circa 4.000 euro al mese. Complessivamente il sistema penitenziario pesa sui nostri conti pubblici per quasi 3 miliardi di euro l'anno. Eppure in Italia la recidiva, cioè il tasso di quanti tornano a delinquere una volta usciti dalla prigione, è altissima: il 70% circa. In Francia, tanto per fare un confronto, è il 50%. In Svezia è meno del 30%. Perché? Perché in Italia sono pochissimi i detenuti che lavorano. Quelli che hanno un'occupazione regolare sono appena 2.386, meno del 4%. Lavorano in carcere per conto di ditte esterne, oppure (se la pena lo consente) la mattina escono dal carcere e vi rientrano la sera. C'è anche una legge che prevede sgravi fiscali per chi assuma carcerati, e i fondi a disposizione non sono pochissimi, 4 milioni di euro nel 2019, ma a richiederli si sono presentate appena nove società. Un altro 30% di reclusi ha occupazioni che vengono loro fornite, a turno, dall'amministrazione penitenziaria: questi 15mila detenuti "fortunati" lavorano da tre a sei ore al giorno, e ricevono una paga tra 150 e 650 euro mensili. Certo, pochissimi di loro vengono formati. La formazione professionale, in carcere, è un'opportunità rara, quasi un miraggio. L'avvocato sorride: «Non è ancora una battaglia persa", conclude «In prigione non ci sono quasi mai battaglie perse. Ci sono soltanto persone. E si potrebbe fare tanto di più".

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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