francesco greco
(Ansa)
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Il triste addio di Francesco Greco da Palazzo di Giustizia di Milano

Nel discorso d'addio nessuna menzione alle lotte interne che hanno dilaniato il Csm ma soprattutto il Tribunale di Milano, ma solo il racconto di un mondo che non esiste

Il procuratore di Milano, Francesco Greco, lascia l'ufficio per andare in pensione e celebra la fine della sua lunga carriera con un ultimo, commosso discorso nell'aula magna del palazzo di giustizia: «Le regole devono essere rispettate in primis dai magistrati», dice Greco. Ma fa un solo riferimento alla «guerra tra toghe» che negli ultimi mesi ha travolto la procura milanese, e al suo durissimo scontro col sostituto Paolo Storari, ovviamente non presente al commiato (assieme a una lunga e significativa serie di altri sostituti): «Non è la prima e non sarà l'ultima tempesta che l'ufficio si troverà ad affrontare», dice Greco, «e comunque al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni lascio una procura organizzata ed efficace».

In realtà, il pensionando Greco sta per lasciare la sua poltrona dopo aver visto 57 magistrati del suo ufficio firmare un documento pubblico di critiche proprio contro la sua gestione e in solidarietà a Storari: e quel documento ha contribuito a impedire il trasferimento di Storari dopo la sua consegna dei verbali d'interrogatorio dell'avvocato Piero Amara all'amico Piercamillo Davigo, quando costui era membro del Consiglio superiore della magistratura. Quella che si chiude, in definitiva, è una storia obiettivamente… amara, per Greco, per anni magistrato-bandiera della sinistra giudiziaria. Basta che si guardi attorno. Oggi una parte dei vertici della sua stessa procura è sotto inchiesta a Brescia, a partire dal procuratore aggiunto Laura Pedio, per avere iscritto tardivamente al registro degli indagati le persone chiamate in causa da Amara, cioè i presunti iscritti alla presunta loggia massonica Ungheria tra cui figurano molti colleghi magistrati. E dopo tutto significa poco che per Greco in quel procedimento sia stata chiesta l'archiviazione dall'accusa di omissione d'atti d'ufficio. Perché intanto, su un altro versante, il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, cioè i due pubblici ministeri del maxiprocesso Eni-Nigeria, rischiano a loro volta il rinvio a giudizio per l'accusa di rifiuto di atti d'ufficio, in quanto avrebbero nascosto alla difesa e al tribunale prove importanti a favore degli imputati. Il processo Eni-Nigeria, per di più, è stato clamorosamente perduto dalla procura (e da Greco, che l'aveva fortemente voluto) ed è terminato con lo schiaffo di una ventina di assoluzioni piene. Intanto lo stesso Greco e Piercamillo Davigo, per la brutta vicenda dei verbali di Amara, si sono denunciati reciprocamente.
È questa guerra tra toghe, abbattutasi proprio sul tribunale che per decenni è stato cuore e motore delle indagini più «politiche» nella storia d'Italia, a dare il senso dello stato in cui Greco lascia l'ufficio che ha retto come procuratore dal 2016 e che nei primi anni Novanta l'aveva visto tra i protagonisti dell'inchiesta Mani Pulite. Il risultato estetico è così brutale e sconvolgente che, in vista del trentesimo anniversario di quel terremoto politico-giudiziario che iniziò il 17 febbraio 1992 con l'arresto del socialista Mario Chiesa, viene da chiedersi se anche quella di Tangentopoli fu vera gloria. Ai posteri l'ardua sentenza. Ma forse ci vorrà meno…

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Maurizio Tortorella

(Pisa, 1960). Dal 1981 vive e lavora a Milano, dove ha esordito come giornalista nella redazione del Sole 24 Ore. Oggi è vicedirettore del settimanale Panorama, di cui è stato inviato speciale tra il 1991 e il 2004. Ha scritto di scandali, mafia e politica, ma soprattutto di cronaca giudiziaria. Ha pubblicato tre libri: L'ultimo dei Gucci (Tropea); Rapita dalla giustizia (Rizzoli); La gogna. Come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli).

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