Bibbiano
Foto di Francesco Cocco/Contrasto
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Bibbiano. "Così mi hanno portato via mia figlia" | esclusiva

Marco e Stefania raccontano la storia della loro figlia, portata via da casa 5 mesi fa da Polizia ed assistenti sociali, e di una vita da allora nell'inferno

Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest’anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell’Enpa, l’Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano.

Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all’esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti. Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L’avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l’hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere».

Bibbiano. La bambina portata via dai genitori da Polizia e assistenti sociali | video esclusivo

Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l’hanno portata, se è in una comunità o affidata a un’altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l’inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto.

La casa è pulita, arredata con semplicità, le vetrinette con i bicchieri, foto di famiglia e un gigantesco elefante di pezza abbandonato sul divano. Accanto al tavolo c’è il seggiolone con tre bavaglioli e i giochini appoggiati sul piano. «Abbiamo ritirato molti dei suoi peluche, non riuscivamo più a guardarli». Al piano superiore, nella camera dove dormivano tutti e tre, Stefania apre i cassetti dell’armadio blu. Prende in mano i piccoli golfini, lavati e stirati con cura. «L’hanno portata via in pigiama senza neanche vestirla». Accanto c’è la camera della nonna e poi la stanza dei giochi: un gufo, la lavagnetta con i colori e una mini Vespa rosa. «È un regalo di compleanno. Il 29 marzo aveva compiuto due anni. Non l’ha mai usata». Si scende nel salotto che dà su un giardinetto, scivolo, altalene, il girello. Sembrano irreali, come in una foto di Luigi Ghirri, appoggiati sull’erba ad aspettare il ritorno della bambina. «Avevamo fatto una gita lungo il torrente Crostolo, lei trovò un coniglietto e lo teneva qui a casa. È morto la settimana dopo che è stata portata via». 
Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell’educazione. «Ero troppo timida, non ce la facevo a continuare». Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me».
«La fede mi fa andare avanti». Vicino al letto si è costruita un piccolo altare con Santa Rita e Sant’Antonio, candele e disegni di angeli. Sul comodino i Decreti di Saint Germain. «Quando cala la notte mi ritrovo qui da sola. Marco spesso resta al piano di sotto. Io guardo il lettino vuoto, ai piedi del nostro. Il cuscinetto a forma di mucca da cui non si separava mai. Dormiva solo con quello. E penso che ho perso l’amore più grande della mia vita. Ho vissuto solo per crescerla, per stare con lei ogni attimo. Era un rapporto totalizzante, incondizionato. E ora non c’è più. Di giorno mi alzo e combatto, ma nel buio sale una tristezza profonda, il dolore mi attanaglia dentro. Resto sveglia, in silenzio. Medito, prego».

Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent’anni. Iniziai a fumare l’eroina. Non sapevo neanche bene cosa fosse, quella stagnola scaldata riempiva il vuoto che avevo nel cuore. Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all’incontro con l’uomo sbagliato. «Lo conobbi in una clinica a Parma, dove ero andata per disintossicarmi, allora lo chiamai amore, non era così. Ci sposammo appena usciti, rimasi incinta, ma all’inizio della gravidanza lo lasciai». Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione».

Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L’ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all’ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi. Ripensandoci oggi è come se cercassero dei bambini “predestinati” a essere tolti alle madri». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». 
Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni, c’è un padre, una casa dignitosa, perché non avrei dovuto crescerla lì? Loro insistono. Una mamma con un bambino collocati in una comunità significano molti soldi pubblici per la struttura che li riceve». Spiega l’avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C’è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d’affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato».

Stefania parla e piange, sfoglia le foto e i video sul cellulare: «Cerchiamo di rimuovere i ricordi felici. Per tirare avanti». Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l’avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l’assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. 
Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova: «A volte era lei, così piccola, a darmi forza, mi vedeva piangere e veniva a prendermi la mano, me la stringeva come se capisse il mio terrore di perderla. È più matura della sua età. Ora spero solo che sia entrata in un suo mondo irreale, che non si renda conto di cosa le hanno fatto».
La settimana scorsa c’è stata l’udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l’intervento di un consulente tecnico d’ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare. «Resisto al mio dolore. Mi aggrappo ai sogni. Stiamo per traslocare in una casa grande nel verde. Lì vorrei crescere le mie figlie. Ho diritto a essere una mamma. Non ho fatto male a nessuno». 
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Terry Marocco