bonavota
(Ansa)
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Catturato nella cattedrale di Genova il superlatitante Pasquale Bonavota, uno dei 4 più pericolosi d’Italia.

E’ stato ammanettato all’interno della Cattedrale del capoluogo ligure. Restano ancora a piede libero Attilio Cubeddu (Anonima sequestri sarda), Giovanni Motisi (Mafia palermitana) e Renato Cinquegranella (Camorra)

Un altro dei latitanti più pericolosi d'Italia è finito nella rete della giustizia

Per Marisa Manzini, che lo aveva indagato a più riprese quando quando era in servizio presso la direzione distrettuale di Catanzaro, «il profilo criminale di Pasquale Bonavota, era sostanzioso anche da minorenne, tanto da essere destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per partecipazione ad associazione mafiosa».

Si è trattato di un arresto lampo, che corona complesse indagini condotte dal Ros e dai Comandi provinciali dei carabinieri di Vibo Valentia e Genova: Bonavota si era introdotto nella Chiesa di San Lorenzo che per i genovesi è il luogo simbolo della spiritualità cittadina, quando è stato bloccato dagli uomini del colonnello Michele Lastella, che dopo averlo seguito senza destare il minimo sospetto lo hanno assicurato all’autorità giudiziaria. Gli inquirenti avevano isolato, grazie a sofisticate intercettazioni telefoniche, le comunicazioni che riguardavano i collegamenti del clan di Sant’Onofrio, nel Vibonese, con la Liguria: e proprio scremando le utenze cellulari, erano riusciti ad individuare il contatto telefonico del boss della ‘ndrangheta che rimandava alle celle telefoniche dell’area della cattedrale di Genova, messa accuratamente sotto osservazione telefonica e visiva. A quel punto, seguendo il segnale del suo apparato cellulare, il boss è stato arrestato: pur avendo un documento falso si è spontaneamente consegnato ai carabinieri, confermando la sua vera identità. Nell’immediato è stato anche rintracciato il covo, un appartamento situato nell’area settentrionale del capoluogo ligure, ora oggetto di perquisizioni tese anche a far luce su eventuali complici: uno di queste potrebbe essere un calabrese titolare del documento falso nella disponibilità dell’ex superlatitante, del quale si dovrà ora accertare l’eventuale ruolo di prestanome. Pasquale Bonavota si era reso irreperibile all’indomani del celebre blitz che chiudeva l’operazione Rinascita Scott, condotta dal procuratore Nicola Gratteri: destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il boss era riuscito a scampare alla maxi retata del 19 dicembre del 2019 che aveva interessato 334 elementi della mafia di Vibo Valentia. La magistratura catanzarese lo accusa di associazione mafiosa quale terminale della pericolosa cosca di Sant’Onofrio di cui aveva assunto le redini dopo la morte del padre Vincenzo. Roma, Genova e Carmagnola, in Piemonte, le città in cui godeva protezioni storiche. Evidentemente non bastate a sottrarlo al blitz di oggi.

Panorama.it ha contattato Marisa Manzini, sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Catanzaro, che per anni, alla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo calabrese, aveva indagato sul pericoloso ex latitante.

Dottoressa Manzini, lei conosce bene Pasquale Bonavota, oggi assicurato alla Giustizia…

«Il mio incontro con la cosca dei Bonavota avvenne appena fatto ingresso nella Distrettuale antimafia: erano gli anni della sanguinosa faida tra le famiglie dei Bonavota di Sant’Onofrio e dei Petrolo-Bartalotta di Stefanaconi, due piccoli comuni confinanti della provincia di Vibo Valentia. Per la stampa nazionale, il secondo comune divenne la “Corleone calabrese”».

In che senso?

«Per la densità mafiosa e per la violenza degli episodi che nel 1992 decretarono il suo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Stesso destino toccato a Sant’Onofrio nel 2009. Intanto il giovane Pasquale, benchè minorenne, si atteggiava a leader della cosca familiare, tanto da essere destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per partecipazione ad associazione mafiosa».

A Sant’Onofrio fu dato l’appellativo di “Chicago della Calabria”, invece…

«Colpa di una strage che il 6 gennaio del 1991 lo trasformò in una carneficina a cielo aperto. Un commando aprì il fuoco proprio di fronte la Chiesa di Maria Santissima delle Grazie, lasciando a terra 2 morti e 11 feriti: tredici innocenti. Le cronache attribuiscono a questo episodio la presa di coscienza criminale dell’allora diciassettenne Pasquale, e della sete di vendetta della sua famiglia. La strage dell’Epifania ne indirizzò il suo curriculum criminale».

A proposito di giovane età…

«Lo scorso 10 gennaio ha compiuto 49 anni: quando mi rapportavo con lui per ragioni di giustizia avevo l’impressione che volesse racchiudere in sé due facce criminali: quella di ‘ndranghetista vecchia maniera, maturata all’interno di un clan che aveva fatto della violenza la dinamica della propria vita, e quella del rampollo intenzionato ad estendere la propria presenza ben al di fuori del suo piccolo borgo. Carmagnola, nel torinese, Genova e Roma sono estroflessioni del clan fuori dalla Calabria».

Nel segno della miglior tradizione ‘ndranghetistica…

«Una ramificata rete di contatti in tutt’Italia, anche per gestire un ingente patrimonio familiare. Pensate che a Roma il Bonavota era sodale di tal Angiolino Servello, suo conterraneo, che le informative davano contiguo ai Casamonica».

E’ stato catturato a Genova, ma è nella Capitale che il clan di Sant’Onofrio ha posto solide basi, dalla droga ai videogiochi.

«E’ la piazza in cui la famiglia ha investito nel tempo enormi quantitativi di denaro per rilevare attività commerciali nel lucroso affare dei videogiochi: le indagini lo davano titolare di una società intenzionata a sfruttare questo filone di investimento».

Lei lo ha avuto di fronte più volte…

«Conservava sempre un atteggiamento formalmente corretto (nel senso che non ha mai dato in escandescenza nel corso degli interrogatori cui lo sottoposi): il suo carisma molto marcato era stato ereditato sicuramente dal padre Vincenzo, ucciso nel 1997. Era un bambino quando si era trovato al centro di una guerra di ‘ndrangheta».

Singolare il suo arresto in una chiesa, addirittura la Cattedrale di Genova. Un dettaglio?

«Su quest’aspetto ci sarebbe da indagare a fondo. Ancora una volta si deve rilevare che gli ‘ndranghetisti si caratterizzano per la loro capacità di piegare la religione, rendendola strumentale ai disvalori criminali che professano. Ma la violenza che la famiglia Bonavota ha esercitato nel tempo non può essere compatibile con la religione».

A proposito: religione e potere mafioso vanno spesso a braccetto…

«Come non ricordare che proprio a Sant’Onofrio, per molti anni, membri della cosca Bonavota si sono contesi il ruolo di portatori delle statue della Madonna, di Gesù e di San Giovanni nell’ambito dell’antico rito dell’Affruntata (Seicentesca tradizione che ricorda l’incontro, appunto, tra Gesù, la Madonna e San Giovanni Apostolo che si celebra nel corso dei riti pasquali, nda) per dimostrare la loro potenza e ottenere consenso popolare».

Lei ha sempre sostenuto che Bonavota andasse cercato fuori dalla Calabria. Marisa Manzini ha la sfera di cristallo?

«Eh! Se fossimo partiti dal presupposto che egli fosse già poco presente in Calabria anche prima dell’inchiesta Rinascita Scott del 2019, ne avremmo dovuto dedurre la circostanza che, effettivamente, andava cercato fuori dai confini regionali, In ogni caso nel vibonese è rimasta la sua famiglia, e il legame territoriale, per la ‘ndrangheta, è un valore indissolubile. Mi permetto di evidenziare un altro aspetto, in ogni caso».

Quale, ci incuriosisce!

«Un aspetto processualistico esemplare, una differenza di non poco conto rispetto ai tre nomi che lo accompagnavano al vertice dell’elenco dei latitanti più pericolosi. Pasquale Bonavota, ad oggi, non è gravato da condanne definitive, viso che la Cassazione e la Corte d’appello di Catanzaro hanno infatti annullato quanto di definitivo vi era a suo carico».

E ciò cosa vuol dire?

«Che nel processo Rinascita Scott, ora alle sue battute conclusive, Pasquale Bonavota, fino all’ultima udienza registrato come latitante, potrà partecipare da detenuto alle prossime udienze. Potrà, se lo vorrà, rendere dichiarazioni spontanee esercitando tutti i diritti che sono riconosciuti dalla legge agli imputati».

***

Marisa Manzini (Novara, 1962) è Sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro: è stata procuratore aggiunto di Cosenza, sostituto procuratore presso la Procura distrettuale di Catanzaro e sostituto procuratore a Lamezia Terme. Si è occupata per diversi anni della ‘ndrangheta di Vibo Valentia, indagando sulla pericolosa cosca dei Mancuso di Limbadi. È specializzata in Criminologia clinica con indirizzo socio-psicologico; si è occupata della direzione del comitato scientifico nel corso di Alta Formazione sulle Politiche di contrasto alla mafia – Analisi delle mafie e delle strategie di contrasto organizzato dalla Fondazione dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Già consulente della Commissione parlamentare antimafia in Roma, ha pubblicato Fai silenzio ca parrasti assai (Rubbettino, 2018) e Donne custodi. Donne combattenti. La signoria della ‘ndrangheta su territori e persone (Rubbettino 2022).

Panorama.it Egidio Lorito, 27/04/2023

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