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Ansa
Calcio

Il modello Atalanta non esiste

Lo sfogo di Gasperini contro il calcio dei ricchi e le big, eppure il modello del suo club non è tanto diverso da quello, criticato, della Juventus e delle altre grandi che trainano il sistema

Ha detto il tecnico dell'Atalanta Gian Piero Gasperini, domenica sera con il pokerissimo al Bologna alle spalle, in uno sfogo divenuto il manifesto del 'No alla Super League': "Lunedì ero convinto che fosse tutti finito. Abbiamo seriamente rischiato di non giocare più per salvare 12 club... I debiti? A Firenze, Palermo o Torino sono saltate società con i conti in rosso e se succede una cosa del genere a Bergamo state sicuri che l'Atalanta chiude. I Percassi devono dichiarare fallimento, mica li salva nessuno". E poi altre considerazioni sui modelli di gestione sostenibile e quelli che, invece, hanno trascinato le multinazionali del pallone sull'orlo del baratro.

Parole che, messe in bocca all'allenatore che ha portato una provinciale come l'Atalanta a un passo dalla semifinale della Champions League, sono suonate come un j'accuse senza possibile replica. Eppure non tutto quello che ha detto Gasperini corrisponde alla realtà dei numeri e di come è cambiato in questi anni il mondo del calcio di cui anche lui fa parte. Perché se è vero che il merito dovrebbe sempre restare la stella polare nello sport, è altrettanto indiscutibile che il miracolo della sua Atalanta sia stato reso possibile in larga parte proprio da due dei pilastri dell'ecosistema contro cui il Gasp si è scagliato da capopolo.

L'ATALANTA? UNA (PICCOLA) JUVENTUS SUL MERCATO

Serve perdere qualche ora nell'analisi dei bilanci per scoprire, ad esempio, che il modello Atalanta ha fatto ampio ricorso a una delle voci più contestate dai critici del calcio dei ricchi: le plusvalenze. Sono state 199,9 milioni di euro negli ultimi cinque anni con un peso del 24,6% sul fatturato totale dei bergamaschi (813 milioni). Per intenderci, la Juventus che è sul banco degli imputati per averne abusato si ferma nello stesso periodo dal 2016 al 2020 al 20,5% (543 milioni su 2,6 miliardi di euro).

Si potrebbe pensare che il dato dell'Atalanta sia eredità di come si facevano le cose a Bergamo prima delle qualificazioni alla Champions League. No, non è così. Nell'ultimo bilancio il peso in casa Atalanta è addirittura del 28,2% (68 su 241 milioni), perfettamente in linea con il 28,9% che ha attirato ironie e accuse sulla testa dei dirigenti juventini.

Insomma, il calciomercato è stato e continua ad essere linfa vitale per i Percassi che senza un nucleo di grandi club pronti a spendere difficilmente avrebbero potuto piazzare bene i gioiellini del loro vivaio. Che, va detto, è un'eccellenza assoluta e c'è merito nell'aver creato questa filiera. A patto di non far finta di non vedere che il cosiddetto player trading funziona se in cima alla piramide c'è chi investe in maniera massiccia e non si limita a gestire i propri ricavi.

AH, QUESTA CHAMPIONS POCO MERITOCRATICA...

Il boom dell'Atalanta dal punto di vista dei ricavi è coinciso con l'ingresso nel dorato mondo delle competizioni Uefa, quelle che distribuiscono milioni di euro a pioggia. Non a tutti, però, ma solo ha chi ha la bravura e la fortuna di entrarci. Ed essere una squadra italiana facilita il compito, visto che dal 2018 la Champions League ne manda 4 direttamente ai gironi; riforma criticata con il presidente Ceferin accusato di aver tolto meritocrazia rendendo più difficile l'accesso a tutti gli altri che non fossero i rappresentanti delle ricche Premier League, Liga, Bundesliga e Serie A.

Tanto per capirci, senza un sistema di Champions League iper protetto (ma solo prendendo come riferimento quello in vigore fino al 2017), l'Atalanta non si sarebbe mai qualificata direttamente alla coppa che garantisce il jackpot. In due occasioni sarebbe andata agli spareggi che tradizionalmente non sono mai stati tanto favorevoli alle italiane. E la differenza tra essere sicuri di un posto e non esserlo è enorme in sede di programmazione di una stagione.

Quanto ha pesato l'Europa sul modello Atalanta? Dal 2016, ultimo anno solo 'italiano', al 2020 i ricavi da diritti tv sono saliti di 3,2 volte da 36 a 117 milioni di euro. Nel quadriennio con due partecipazioni alla Champions e due (una fuori ad agosto) in Europa League i Percassi hanno fatto utili per 128 milioni contro il meno 4,5 del triennio precedente. La morale? L'Atalanta è stata bravissima a fare scelte sportive corrette, ma senza il sistema attuale, già considerato elitario da tre quarti delle federazioni europee, non avrebbe avuto nemmeno la forza di cercare di crescere. Lo dicono i numeri. Che raramente mentono.

SENZA LE BIG CHE SPENDONO TUTTI PIU' POVERI

Sarà forse anche per questa consapevolezza che Percassi non si è unito al coro dei club (11) che vogliono sanzioni per Juventus, Milan e Inter colpevoli di aver cercato nella Super League un nuovo modello di business e una via d'uscita alla crisi della pandemia. Mentre il suo allenatore tuonava, il numero uno bergamasco è rimasto nella minoranza certamente non contenta del tentativo di fuga in avanti, ma anche pragmatica nel gestirne le conseguenze.

Il modello Atalanta ha consentito di dotare la società di stadio, patrimonializzazione, utili da reinvestire con equilibrio. Ha permesso di chiudere il bilancio del Covid, quello al 31 dicembre 2020, con un mirabolante utile di oltre 51 milioni di euro mentre gli altri affondavano. Tutto vero e giusto. Ma il miracolo di questi anni è stato reso possibile anche da un ecosistema in cui il club è cresciuto godendo del traino delle altre, in particolar modo le big. E di un sistema che non sarà perfetto - quello della suddivisione dei diritti tv della Serie A -, ma che dal 2009 con l'entrata in vigore della legge Melandri ha ridotto la forbice con le big, alzato i ricavi delle altre, lasciato sulle spalle delle solite note l'obbligo di vincere.

info: www.true-news.it/sports

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Giovanni Capuano