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Bossetti, inevitabile la conferma dell'ergastolo in appello

Scarso margine per la difesa: la sentenza della Corte d'assise era precisa, circostanziata. E non sono arrivate novità significative

La sentenza di primo grado sull'omicidio di Yara Gambirasio ha retto, e non poteva essere altrimenti.

Bastava leggere le motivazioni della Corte d’assise di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja affiancata dal giudice a latere Ilaria Senesi, per capire che rimaneva pochissimo margine a disposizione dei difensori di Massimo Bossetti.

Era una sentenza quadrata, precisa, circostanziata, con tutti i punti e le virgole messe al posto giusto. A cominciare dal come e perché la prova del dna acquisiva una forza decisiva nel quadro probatorio a carico del muratore bergamasco accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio.

Non c'erano grandi novità

Non poteva essere altrimenti perché quelle che la difesa ha presentato in appello come grandi novità in grado di ribaltare il processo, in realtà semplicemente non lo erano.

Si trattava in buona parte di presunti dubbi su fattori già affrontati e risolti in aula durante il dibattimento primo grado. Buoni certamente per suggestionare l’opinione pubblica, ma destinati a essere considerati come tali da un giudice d’appello che si rimette solo ed esclusivamente agli atti.

La fotografia satellitare

Per prima cosa è stata annunciata e accompagnata dalle fanfare la fotografia. Vale a dire: una fotografia satellitare in grado di ribaltare le risultanze scientifiche della dottoressa Cristina Cattaneo e dimostrare la teoria della difesa: ovvero che Yara non era stata per tutti i tre mesi nel campo di Chignolo e che addirittura fosse stata uccisa altrove.

Ma non ci voleva certo una perizia scientifica per intuire che quella foto non avrebbe cambiato alcunché. È bastato che l’avvocato della famiglia Gambirasio, Andrea Pezzotta, si mettesse in macchina e andasse a fare due misurazioni manuali sul posto per dimostrare che quella foto non poteva dimostrare nulla.

Il Dna "degradato"

Poi il Dna. Con la presa di posizione di un genetista di fama mondiale che avrebbe dimostrato come un Dna lasciato su un campo per tre mesi fosse destinato a degradarsi irreparabilmente.

Ma anche qui, una volta lette le carte, si è capito subito che questa "non consulenza" avrebbe fatto poca strada. Il genetista faceva riferimento a uno studio condotto da tre studiosi in Australia non soltanto in condizioni climatiche completamente differenti, ma addirittura su materiali diversi. Nello studio australiano infatti si lavorava su corpi solidi rigidi, non su tessuto come nel caso delle mutandine di Yara. E pure su una traccia genetica trasmessa per contatto, sfregamento, non una penetrazione di liquido su tessuto.

In buona sostanza lo studio australiano studiava in condizioni climatiche differenti la resistenza di una traccia lasciata da una mano sporca di materiale genetico che tocca una porta.

Questo dicevano le carte. E i giudici leggono e si rimettono alle carte, non alle chiacchiere.

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Carmelo Abbate