Bendetto XVI
(Ansa)
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Benedetto XVI e il mysterium iniquitatis

L'editoriale dell'ex direttore di Panorama nel giorno delle dimissioni del Papa Emerito, morto oggi a 95 anni

Al cospetto delle dimissioni di Benedetto XVI siamo tutti smarriti. La grandezza del gesto chiama credenti e non a riflettere sulla portata storica, sull’immensità di un Papa che impone un finale diverso e straordinariamente umano al suo pontificato rispetto alla spiritualità del trapasso che, secondo tradizione, dovrebbe accompagnare il congedo terreno del vicario di Cristo. Benedetto lascia e, al netto della spossatezza del suo corpo, ci dice che è lo spirito della Chiesa a essere malato. E che a imporre un epilogo traumatico al suo mandato è la gravità dei fatti del nostro tempo: la morte, e quindi il «normale» ricongiungimento con il Padre, sarebbe stato un fatto naturale, non avrebbe in alcun modo obbligato il mondo a riflettere sull’unicità e drammaticità delle dimissioni. Per cambiare il corso delle cose, dunque, bisognava riscrivere il finale e, in qualche modo, vincere la morte.

È tutta qui, nell’umiltà del pastore che dà alla sua Chiesa una scossa più potente di mille encicliche, la lezione del Papa. A essere malato non è lui, a dovere incidere con coraggio le proprie carni sono la Chiesa e gli uomini della Chiesa. A loro Benedetto ha implorato di agire, di cambiare, di tornare sul sentiero del messaggio di Cristo. Il Papa non è stato sorretto con la forza necessaria in questo cammino: è stato lasciato solo in primo luogo dalla sua curia. All’indirizzo disegnato con chiarezza dal Santo padre non sono corrisposti atti conseguenti. Ha lottato, eccome, Benedetto. Le dimissioni sono diventate così un atto di ribellione, un evento «rivoluzionario». E tali restano, nel solco dell’insegnamento del primo rivoluzionario descritto nel Vangelo: Gesù.

Leggendo delle dimissioni del Pontefice chi crede è confuso, forse impaurito, addirittura terrorizzato come Maria di Magdala che si reca al sepolcro e non trova più il corpo di Gesù. Lei piange e ai «due angeli in bianche vesti» che le chiedono perché è così in pena risponde: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Sarà Gesù a porre fine al tormento della donna e a farsi riconoscere: premiando così la sua tenacia, i suoi sentimenti, il suo zelo. Ecco, oggi siamo noi a essere smarriti, ma i nostri occhi (con loro gli occhi della Chiesa) non possono ancora vedere quale «mysterium iniquitatis» si nasconde dietro la lezione di Benedetto: a Roma c’è molta sporcizia da togliere e ci sono tantissimi peccati da espiare. Il cammino è lungo e il gesto di Benedetto indica che l’unica strada da percorrere è quella di intervenire con coraggio e in profondità nel corpo malato della Chiesa. È il compito, terribile ma improcrastinabile, che attende il suo successore.

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Giorgio Mulè