Aung San Suu Kyi in Parlamento difende diritti umani e lotta alla povertà
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Aung San Suu Kyi in Parlamento difende diritti umani e lotta alla povertà

Già criticata per non aver detto o fatto abbastanza, il Nobel per la Pace birmano dimostra invece di avere un unico obiettivo: la riconciliazione nazionale. Da raggiungere con una strategia insolita ma efficace

È probabile che il 25 luglio 2012 verrà ricordato per sempre nei libri di storia del Myanmar come il giorno della rinascita, se non del riscatto. Quello in cui, per la prima volta, alla leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi è stato permesso di prendere la parola in Parlamento.

L'annullamento degli arresti domiciliari, cui la donna simbolo della Nazione è stata costretta per 15 degli ultimi 24 anni, la sua elezione in aprile e il suo viaggio in Europa a fine giugno, infatti, sono percepiti da tanti come meno importanti rispetto al momento in cui Aung San Suu Kyi ha finalmente potuto ricominciare a fare qualcosa di concreto per il suo popolo. In maniera attiva e legittima, vale a dire dai banchi del Parlamento.

Tant'è che oggi c'è già chi sogna che, un giorno, a questa donna straordinaria potrà finalmente essere assegnato il ruolo che le spetta da decenni. Quello di leader di un nuovo governo "realmente" democratico.

Il Nobel per la Pace ha scelto di affrontare il problema della protezione delle minoranze etniche all'interno del Paese, un tema a lei da sempre molto caro, perché è da anni che migliaia di innocenti continuano ad essere perseguitati e uccisi dal regime solo perché appartengono a minoranze considerate in quanto tali illegittime.

In Birmania convivono 130 diverse etnie, cui fa capo più o meno un terzo della popolazione. "Per far diventare il Paese una vera unione democratica, in cui il rispetto reciproco e diritti uguali per tutti rientrino nello spirito di 'unione', mi appello a tutti i membri del Parlamento affinché mettano in atto le leggi necessarie per proteggere i diritti delle minoranze etniche".

Qualcosa di simile Aung San Suu Kyi lo aveva detto anche nel corso del suo recentissimo viaggio nel Vecchio Continente, contestualmente al quale, in patria, circa ottanta persone hanno perso la vita negli scontri tra buddisti e musulmani di etnia Rohingya nello stato occidentale di Rakhine. Iniziati per una violenza sessuale conclusasi con un assassinio ai danni di una giovane donna buddista.

In Parlamento il Nobel birmano ha invitato i suoi colleghi a non dimenticare che, per proteggere realmente le minoranze etniche, non basta permettere loro di continuare a utilizzare la propria lingua e a tramandare la propria cultura. Ma è necessario aiutarle a lasciarsi alle spalle un passato fatto di povertà e violenza.

Nel suo discorso di oggi Aung San Suu Kyi non ha lasciato il segno per quello che ha detto ma per il semplice fatto di aver avuto l'opportunità di dirlo. La donna è stata in più occasioni criticata per non aver preso una posizione chiara sulla questione della minoranza Rohingya, considerata dalla maggioranza dei birmani come un "gruppo fin troppo numeroso di immigrati irregolari provenienti dal Bangladesh".

Appena un mese fa, la paladina birmana avrebbe infatti risposto con uno sconcertante "non lo so" alla domanda su se i Rohingya potessero essere considerati cittadini del Myanmar oppure no. Tuttavia, non va dimenticato che oggi Aung San Suu Kyi è a tutti gli effetti un membro del Parlamento, probabilmente molto più consapevole di tanti altri attivisti che le stanno intorno della necessità di cooperare con la maggioranza guidata dal Presidente Thein Sein per ottenere qualche risultato concreto.

Un atteggiamento intransigente sarebbe controproducente. E a una donna che ha ribadito in più occasioni di essere pronta a tutto per favorire il processo di riconciliazione nazionale non importa essere criticata dagli stranieri per i suoi presunti tentennamenti o per i suoi discorsi apparentemente poco significativi.

Dal suo punto di vista ogni mossa, ogni parola, è finalizzata a ricostruire un rapporto di fiducia con il governo in carica. In maniera da non essere sospettata di voler creare dal nulla la democrazia, perché solo così potrà aiutare la sua Patria a progredire. Non importa se questo cammino sarà lentissimo. Ciò che conta è non ritrovarsi nella condizione di dover fare nuovi passi indietro.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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