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5 fatti del 2017 che condizioneranno il 2018

Dalla situazione politica in Libia alle forze sciite, dai paesi dell'Europa dell'Est alla Terra Santa fino al Russiagate e Julian Assange

Se ne è parlato, certo. Ma altre notizie, più tragiche, hanno fatto ombra su almeno cinque fatti cristallizzati dal 2017 e che condizioneranno, a lento rilascio, tutto il 2018.

Il regno del Generale Haftar in Libia

La Comunità Internazionale ha deciso una Libia unita, sotto la guida di Fayez al-Sarraj, Presidente e primo Ministro libico. Peccato che a contenderne il potere ci sia il generale Khalifa Aftar, noto come il Signore della Cirenaica. È con lui che il governo italiano dialoga (dialoga?) per gestire la crisi dei flussi migratori. È sempre lui che a volte lancia minacce ai quattro venti.

Di certo passa da Roma dove s’incontra con Minniti, figura cruciale della nostra Intelligence e in subordine titolare di un ministero, per quanto di peso. Insomma, l’Italia – avamposto dell’Europa - riconosce come unico interlocutore Sarraj, ma delle cose molto serie parla con Aftar. E questo suggerisce che la transizione è finita e la Libia a due teste è ormai un dato acquisito.

La forza sciita

Sono finite nel dimenticatoio le analisi di chi dava Bashar al-Assad per spacciato dopo l’inizio della guerra in Siria nel 2011; è cambiato anche l’inquilino della Casa Bianca, quell’Obama che con la sua linea rossa (cioè l’uso dei gas) minacciata e poi lasciata cadere ha spianato la strada all’ascesa russa. Grazie a Vladimir Putin si dirà, ma certo Assad e la minoranza alauita sono al potere a Damasco e del loro avvicendamento non si parla quasi più.

Più forte anche l’Iran, Hezbollah sempre reattivo, la galassia sciita non retrocede di un passo e anzi, stabilizzato il vasto Iraq dov’è maggioranza, ottiene vittorie sul sunnismo radicale e anche su quello moderato. Qualcuno ha sbagliato scommessa e adesso, nel valzer delle alleanze, l’Occidente resta coi partner meno talentuosi e si affida una nuova scommessa: il Principe saudita Mohammad Bin Salman conta parecchio ma, al momento, rimane ereditario.

Il Gruppo di Visegrad

Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria, tenuti per mezzo secolo sotto il mantello del Patto di Varsavia, sono l’Europa dell’Est recalcitrante a elaborare la storia e il concetto di “diverso”, e per questo si oppongono all’accoglienza dei migranti. Alla Presidenza ora c’è la Polonia, che Bruxelles vorrebbe mettere in stato d’infrazione, una volta tanto, non sui soldi ma sui principi.

Ma a Varsavia, come a Budapest, soffia un vento intollerante che invece d’infiacchirsi, è arrivato fino a Vienna, passando per Praga. A est vincono a mani basse le destre, vince il mito del sangue puro, e Bruxelles non sembra avere la forza per far ragionare sulle quote dei migranti come su altri principi giuridici di civiltà. Visegrad è il grande scisma orientale come la Brexit è stato quello occidentale. L’Unione Europea è più piccola e non basta un enfant prodige come Emmanuel Macron a farsi dar retta.

Stagnazione in Terra santa

Le scelte di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come unica capitale sono state partigiane in Terra Santa, poco ma sicuro, ma la tanto annunciata rabbia palestinese per ora (e per fortuna, certo) si è spenta presto. Questo suggerisce una certa stanchezza su ambo i fronti, perché la road map non solo è faticosa, ma sembra giunta a un punto morto. Fa più politica l’UNESCO, e infatti Trump e Israele lasciano anche questo sodalizio.

La coperta è davvero corta e molti sono gli interessi tra i falchi di ambo le parti perché il processo di pace abbia uno sbocco positivo. Venendo a mancare l’arbitro per eccellenza, gli Stati Uniti, l’accordo si è allontanato sine die. Questa è una promessa elettorale mancata da Trump, la sola per ora. Le altre cose promesse, ce ne siamo accorti, sta tentando di mantenerle sul serio.

Julian Assange congelato

Assange è sempre ospite dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Gli Stati Uniti ne reclamano l’estradizione ma poi, se il fondatore di WikiLeaks dovesse mai comparire di fronte a un tribunale americano, scatterebbe la battaglia del secolo sul Primo Emendamento, quello che tra le altre cose sancisce la libertà d’espressione.

Inoltre il ruolo di Assange nel Russiagate (fake news o scandalo reale?) non è chiaro. Ha giocato per Trump o ha fatto il doppio gioco in favore di Mosca? Assange è il nodo mai venuto al pettine dell’attuale architettura dei Media globali, declinata tra social e piattaforme cifrate dove il segreto di Stato trema. È lui la tessera del domino che, cadendo o restando congelata, dirà se il sistema dell’informazione di domani sarà quello che conosciamo oggi.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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