Terrazze ripide, vigneti aggrappati alla roccia, climi estremi e mani che lavorano ancora pianta per pianta: la viticoltura di montagna non è solo una scelta produttiva, ma una filosofia. In un momento storico in cui il vino vive una profonda trasformazione, tra calo dei consumi e cambiamento climatico, le zone più alte d’Europa stanno dimostrando una sorprendente capacità di adattamento e innovazione. La Valle d’Aosta è uno dei laboratori più interessanti di questa evoluzione, dove tradizione millenaria, biodiversità e ricerca scientifica si intrecciano. Ne parlano Patrick Ronzani, responsabile del settore viticoltura ed enologia dell’Institut Agricole Régional, e Nicolas Bovard, presidente del Consorzio Vini Valle d’Aosta.
L’eroismo non è la pendenza, ma il contatto con la vite
«Dal punto di vista del marketing – spiega Ronzani– la viticoltura eroica viene raccontata attraverso le pendenze, la verticalità, la fatica. Ma la vera eroicità è un’altra: noi viviamo la vigna ogni giorno, tocchiamo ogni pianta, la conosciamo una per una. L’impossibilità di meccanizzare ci obbliga a questo rapporto diretto e intimo con la vite, ed è lì che nasce la qualità».
In un mondo vitivinicolo sempre più standardizzato, la dimensione artigianale dei vigneti valdostani diventa un valore distintivo. «In zone dove si hanno 100 ettari – continua – tutto è uguale e governato dalle macchine. Qui ogni parcella è diversa, ogni filare racconta una storia».
Il terroir unico della Valle d’Aosta
La Valle d’Aosta è una delle regioni vitivinicole più piccole d’Europa, ma anche una delle più complesse e affascinanti: «Abbiamo una storia millenaria e un clima unico: soprattutto in centro valle piove poco, il che significa meno trattamenti e quindi un’agricoltura molto sostenibile».
Il cambiamento climatico, spesso visto come una minaccia, in alcuni casi ha persino migliorato la qualità di certi vitigni di montagna: «Alcune varietà oggi raggiungono maturazioni che prima erano difficili». Per questo il Consorzio ha chiesto di alzare ufficialmente le quote delle zone Doc, aprendo la strada a vigneti sempre più in alto.
Quali vitigni per le vigne del futuro
Non tutte le uve possono salire di quota. «Le varietà più adatte sono quelle a maturazione precoce, come Prié Blanc, Pinot Nero e Chardonnay. A certe altezze, però, il rischio delle gelate primaverili resta un limite».
E qui entra in gioco il lavoro dell’Institut Agricole Régional. «Stiamo selezionando cloni più resistenti di Petit Rouge, un vitigno che oggi soffre problemi come scottature, marciumi e malattie del legno. Cerchiamo grappoli più spargoli e piante più resilienti, per adattare la viticoltura al clima che cambia».
Biodiversità come strategia di mercato
La produzione valdostana è minuscola, ma ricchissima in termini di biodiversità. «Abbiamo un patrimonio di vitigni autoctoni che non è ancora stato del tutto scoperto –ed è una grande opportunità. In un mercato internazionale in calo, servono novità vere, e l’autoctono è ciò che il turista cerca quando viene qui».
La riduzione dei consumi globali non è vista come una condanna, ma come una selezione naturale. «Si beve meno – dice Bovard – ma si cerca più qualità. E la viticoltura di montagna è una nicchia che può attirare curiosità e valore».
Giovani, ricerca e lavoro di squadra
Una delle sfide più grandi resta il ricambio generazionale. «I giovani oggi bevono altro, spesso per prezzo e per mancanza di cultura del vino. In Valle d’Aosta, però, negli eventi vitivinicoli, vediamo molti under 30 interessati. È un segnale positivo».
Per Ronzani, il futuro passa anche dalla cooperazione: «Regione, Consorzio, Institut Agricole e Cervim devono lavorare insieme. Le stagioni sono sempre più imprevedibili, tra caldo, freddo e piogge irregolari. Solo facendo squadra possiamo affrontare le sfide di clima, malattie e mercato».
E mentre il consumo di massa arretra, i vigneti che sfidano la montagna potrebbero guadagnare terreno. Perché, come dimostra la Valle d’Aosta, il vino del futuro potrebbe davvero nascere sempre più in alto.
