Nel nostro quotidiano consumo di pillole, capita spesso che una molecola interagisca con un’altra, con rischi imprevisti – talora gravi – per la salute. Noi non lo sappiamo, e non sempre i medici ne sono consapevoli. E se poi i farmaci si mischiano agli integratori…
Dodicimila all’anno, più o meno, sono le prescrizioni che un medico di base si trova a fare ai propri pazienti, il che vuol dire circa 45 ricette al giorno. E se dopo una certa età pillole, pasticche e pastigliette varie si sommano una all’altra per malattie croniche, disturbi occasionali o fattori di rischio, quante possibilità ci sono che i tanti medicinali interferiscano gli uni con gli altri, facendo «baruffa» tra loro e causando problemi inaspettati?
Poche se il medico conosce bene le eventuali interazioni tra un principio attivo e l’altro, e se il paziente gli dice esattamente che cosa sta prendendo; ma quando ciò non avviene, gli effetti collaterali delle varie molecole possono sommarsi; oppure l’azione di un medicinale può venire potenziata da un altro, o viceversa ridotta.
È uno dei problemi (non l’unico) della cosiddetta politerapia. Del resto, gli ultra 65enni assorbono oltre il 60 per cento della spesa farmaceutica nazionale (dati Aifa) e circa il 70 per cento delle dosi. E quella relativa alle malattie croniche, sempre dopo i 65 anni, è 13 volte maggiore che tra i 25 e 35. In pratica, succede che gli effetti di un medicinale vengono modificati da altri assunti nello stesso tempo. A esserne alterati possono essere l’assorbimento, il metabolismo o l’eliminazione. «O ancora, il nuovo farmaco può interagire con altri principi attivi già presenti nella terapia, potenziando o riducendo gli effetti dei farmaci che il paziente assume da tempo con il rischio di reazioni avverse» spiega Filippo Caraci, associato di Farmacologia al Dipartimento di Scienze del farmaco e della salute dell’Università degli Studi di Catania e membro della Società italiana di farmacologia.
«Quando si usano più di otto farmaci contemporaneamente, le interazioni sono quasi inevitabili» conferma Roberto Venesia, segretario della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale). «Il medico deve instaurare una relazione terapeutica, saper ascoltare gli effetti collaterali riportati dai pazienti e anche fare una scelta se chi ha di fronte ha più malattie croniche. Se applico per ogni patologia le relative linee guida, è probabile che si creino guai: ciò che funziona per un problema al cuore non va bene se il paziente ha l’asma o è in terapia oncologica, soffre di diabete o un’insufficienza renale. Il fatto è che il medico di famiglia non è l’unico a manovrare la leva dei farmaci, che sono prescritti anche dagli specialisti, e diventa così più complesso verificare l’insieme delle terapie».
Senza contare gli innumerevoli prodotti da banco: si va in farmacia, si sceglie (se va bene, chiediamo un parere al volo al farmacista), si paga e via così. «Oggi tra i medici la consapevolezza di questo problema è aumentata, anche se non in modo uniforme nel territorio e non egualmente in tutte le specialità» riflette Caraci. «Non sempre medici e specialisti hanno pieno accesso a tutti gli studi sul tema. Per questo dieci anni fa avevamo fondato, insieme ai professori e farmacologi Giorgio Racagni e Filippo Drago, il progetto Interdrugs. Oggi ci sono vari siti per la previsione delle interazioni, ma va sicuramente potenziato il livello di informazione». Se non è facile per i camici bianchi, figurarsi per i pazienti. Vero, ci sono i lettori appassionati di foglietti illustrativi (dove è puntigliosamente indicato ogni potenziale effetto avverso), ma la maggior parte di noi li assume senza starci a pensare troppo su.
Volendo fare un po’ di esempi, sappiate che se si prende un farmaco anti-trombosi, l’ultima cosa da fare per combattere un qualsiasi dolore è buttar giù un’aspirina, che è già un antiaggregante. Il rischio è di procurarsi un’emorragia pericolosa. Se si assumono alcuni antibiotici (claritromicina) o antimicotici (fluconazolo) potrebbero alterarsi in modo significativo, già dopo 24-48 ore, le concentrazioni di altri principi attivi come le statine anticolesterolo o i calcio antagonisti per l’ipertensione arteriosa. E le conseguenze possono essere gravi quando a essere coinvolto nelle interazioni è un medicinale a «ristretto indice terapeutico», ossia il margine tra la dose necessaria per avere effetto clinico e quella che invece può dare tossicità.
Nelle malevole alchimie tra principi attivi diversi, un capitolo a parte (e più insidioso) è quello tra farmaci e integratori. Per questi ultimi noi italiani abbiamo una pervicace passione: primi nella classifica europea, ogni anno spendiamo oltre 3,2 miliardi di euro per il loro consumo. Li acquistiamo spesso un po’ a capocchia e al medico magari non lo diciamo perché «comunque è tutta roba naturale». Ma anche la natura, quando vuole, riesce a complicarci la vita. Capita così che una sostanza innocua come la camomilla possa interferire con gli integratori di ferro riducendone l’assorbimento; la liquirizia contrasta l’azione di antiaritmici e diuretici (e può dare ipertensione); il ginseng non va d’accordo con i farmaci per il diabete (ne intensifica l’azione con il rischio di ipoglicemia); lo zenzero se assunto insieme al coumadin (il warfarin, anticoagulante) può provocare sanguinamento; gli estratti di aglio e derivati aumentano infine l’effetto degli antipertensivi.
«Tutte cose che ho visto nella mia pratica medica» racconta Venesia. «Il fatto è che maneggiamo centinaia di molecole, ci sono le linee guida per la prescrizione ma ben poco sulla de-prescrizione, il miglior sistema per evitare interazioni tra farmaci». In pratica, togliere dall’armadietto dei medicinali quelli che non hanno una vera ragione d’essere. «Nella mia regione, il Piemonte, abbiano iniziato dei progetti che vanno verso una sottrazione consapevole. E qui togliamo davvero molti fastidi e rischi ai pazienti, oltre a ridurre la spesa sanitaria, nell’attesa che la letteratura scientifica ci dia indicazioni più precise» continua Venesia. «Dodici prescrizioni su un anziano, come spesso avviene, significa farlo entrare in un terreno pericoloso. Dargli l’anticolesterolo se ha 93 anni, per esempio, ha senso?».
Probabilmente no. Basterebbe, per tenere sotto controllo pressione, colesterolo e glicemia, camminare e muoversi un po’ di più. E se a 90 anni non è come dirlo (ma non si sa mai), un 70enne ha poche scuse per non farlo. Più passi e più alimentazione sana uguale meno chili, meno farmaci, meno complicazioni di salute. Suona come la solita predica sugli stili di vita, che barba che noia? Sarà, però è proprio così che funziona.
