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Ci possiamo fidare dei vaccini?

Ci possiamo fidare dei vaccini?

La vicenda del siero AstraZeneca e dello stop, sia pure temporaneo, alla campagna di immunizzazione ha alimentato i dubbi e timori (legittimi o infondati, poco importa) intorno agli antidoti contro il Covid: quanto siano davvero sicuri, che rischi si corrono, quali effetti danno, chi li controlla. E senza la fiducia collettiva, sarà ben difficile raggiungere la tanto sospirata immunità di gregge.


Non abbiamo i nervi saldi. Non abbiamo le idee chiare. Non abbiamo fiducia. E mentre, sconsolati e vagamente nevrastenici, aspettiamo il nostro turno per il vaccino, ci dicono che il siero che doveva toglierci dai guai forse non è così salvifico come pareva. Quei casi di trombosi che hanno acceso una luce sinistra sul lotto ABV2856 del farmaco di AstraZeneca, e quelle «morti» sospette in persone da poco vaccinate (con un altro lotto, però), rendono ancora più accidentata l’interminabile strada verso il «ritorno alla normalità». Disorientati in un labirinto di dubbi, ci chiediamo, a rischio di apparire un po’ complottisti: ci staranno raccontando tutta la verità?

Dopo lo stop imposto in Europa ad AstraZeneca (fa eccezione il Regno Unito che continua imperterrito) anche in Italia l’Aifa, che aveva parlato di «ingiustificato allarme», poche ore dopo ha sospeso, sia pure per 72 ore, il farmaco anglo-svedese. Con effetti non solo inquietanti, ma quasi grotteschi. Racconta Antonio Ferro, presidente della Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica, che «nei nostri dipartimenti di prevenzione, mentre erano in corso le sedute vaccinali e la persona prima era stata appena immunizzata, si diceva a quella dietro, con la spalla già scoperta che no, il vaccino non si poteva più fare». Decisione dovuta, riflette Francesco Le Foche, immunologo clinico all’Università La Sapienza di Roma: «Dal momento che si sono verificate una serie di condizioni morbose similari e anomale, con un nesso cronologico con la vaccinazione, giusto valutare bene ma velocemente. Altrimenti il rischio è di inficiare la fiducia nei vaccini, un baluardo di salute pubblica».

La conclusione dell’Ema? Un via libera con qualche avvertenza in più per alcune categorie a maggior rischio di trombosi (una decina di malattie specifiche, o le donne che prendono la pillola anticoncezionale). E le somministrazioni sono riprese.

Resta però difficile biasimare chi una certa fifa all’idea di allungare il braccio verso l’ago continua ad averla. Sarà anche stata una mezza psicosi di massa «che pagheremo cara», come ha detto con cupa irritazione l’infettivologo Massimo Galli, ma l’unica alternativa è affrontare le paure e riportare il pericolo percepito al rischio reale che ogni farmaco porta con sé.

I numeri, per esempio, un po’ di ansia la placano: su 17 milioni di somministrazioni con AstraZeneca (10 nel Regno Unito e sette in Europa) ci sono stati 15 eventi di trombosi venosa e 22 di embolia polmonare. Una media di casi analoga a quella che si riscontra normalmente nella popolazione. Per dire: in Italia ogni giorno si registrano quasi 170 episodi di tromboembolie, indipendenti da qualsiasi vaccino. Semplicemente, succedono.

Altre cifre per inquadrare la situazione: in Inghilterra le reazioni avverse ai vaccini sono state 54 mila, lo 0,55 per cento del totale. Di queste, 194 le più gravi: lo 0,002 per cento. Nessun allarme, nessun dubbio. Ah, e poi 275 casi di morti dopo la somministrazione, ma secondo gli esperti inglesi, il vaccino non c’entrava. Ai Brexiters, insomma, siamo noi europei ad apparire iperansiosi. «Ciò che avviene in Inghilterra è una sorta di esperimento in vivo» dice Le Foche. «Con il vaccino AstraZeneca hanno avuto un calo fra il 25 e il 30 per cento settimanale di ricoveri per Covid. Un dato importantissimo».

Incuranti di esperimenti sociali oltre Manica, tanti disdicono tuttora i loro appuntamenti, nella speranza di incappare in un vaccino migliore. Non è che quelli a base di vettori virali (AstraZeneca, Sputnik, Johnson & Johnson, Reithera), sono meno sicuri di altri? «Direi proprio di no» risponde Le Foche. «I vaccini a vettori virali sono stati già sperimentati in medicina, anche contro Ebola. Rispetto alla tecnologia a Rna, stimolano il sistema immunitario con modalità diverse, ma non comportano reazioni più gravi».

Secondo Giovanni Maga, virologo all’Istituto di genetica molecolare del Cnr, «in un recente report di monitoraggio dell’Aifa emerge che nei tre vaccini Pzifer, Moderna e AstraZeneca le reazioni gravi sono sovrapponibili, e rappresentano circa il 6 per cento delle segnalazioni. E per “grave” si intende qualsiasi reazione che richieda un’attenzione medica. Anche la febbre a 39° che passa con la tachipirina». Nel restante 94 per cento, in pratica, ci si ritrova con mal di testa, febbre, dolori muscolari o articolari. Se il vaccino è a mRna (Pfizer o Moderna) magari anche con mal di stomaco e nausea. Sintomi che passano nel giro di un paio di giorni. «Qualsiasi evento avverso, se riportato al medico entro due/tre settimane, deve essere segnalato alla farmacovigilanza» spiega Maga. «In genere gli effetti collaterali si fanno sentire nelle prime 48 ore, solo in casi rari si verificano dopo una settimana. E la correlazione temporale non significa un legame causa-effetto».

D’accordo, vista così la faccenda sembra ridimensionarsi. Resta quella manciata di morti improvvise in persone senza apparenti patologie, poco dopo aver fatto l’iniezione: tre uomini delle forze dell’ordine, un bidello e una professoressa. Qui l’argomento si fa più spinoso. È vero che in Italia ogni anno muoiono per problemi cardiovascolari 400 persone ogni 10 mila abitanti; e quindi, su oltre 6 milioni di italiani vaccinati – di cui due milioni con il richiamo – ci dovremo aspettare in media 60 morti al giorno. Per tre delle cinque vittime (il maresciallo dei carabinieri siciliano, il bidello, l’insegnante napoletana) i primi esiti delle autopsie hanno escluso un legame con il vaccino.

Ma se una persona si immunizza il pomeriggio, durante la notte ha febbre alta e il mattino dopo il cuore non batte più (come per un altro sottufficiale in Sicilia), difficile pensare che non ci sia un nesso… «In questi casi non si può escludere che un soggetto con determinate caratteristiche possa avere un peggioramento o una reazione di questo genere, solo l’esame autoptico potrà chiarire. Che avvengano decessi nella popolazione vaccinata è però normale. A fine febbraio in Italia ci sono state 40 morti in persone immunizzate, ed è stato escluso il nesso causale. Negli Usa, con Pfizer, su 14 milioni di dosi, 110 decessi, e anche qui il vaccino non era la causa».

Nel concetto di «particolari caratteristiche» – che potrebbero renderci più vulnerabili – si annidano però un bel po’ di domande. Quali controindicazioni dovrebbero farci stare alla larga dai vaccini anti-Covid? Se sono allergico, cardiopatico, iperteso, immunodepresso o soffro di una malattia autoimmune (per cui le mie difese vanno in tilt), mi prenoto lo stesso?

Per chi soffre di cuore, afferma la Società italiana di malattie cardiovascolari, il vaccino è uno scudo in più, anche perché si tratta di una delle categorie più a rischio di morte se si ammala di Covid. E parlando di complicazioni cardiocircolatorie, va ricordato che nei pazienti ricoverati per coronavirus i casi di trombosi e coaguli sono 1 su 3. Un’enormità. I difetti di coagulazione? Come indica lo stesso foglietto indicativo di AstraZeneca (sul sito Aifa) negli emofilici o in chi riceve terapia anticoagulante – per esempio il Coumadin – potrebbero verificarsi lividi o sanguinamenti. Il contrario dei coaguli, insomma.

Se il vaccino sollecita il sistema immunitario, in un paziente immunodepresso o con una malattia autoimmune, che succede? Le difese non si attivano abbastanza? Lo fanno malamente? «Il vaccino stimola non solo i linfociti B, ma anche quelli T, ossia l’immunità di memoria» precisa Le Foche. «Se un paziente immunodepresso, magari perché in terapia oncologica, se avesse pochi anticorpi dopo il vaccino, sarebbe comunque parzialmente tutelato dall’immunità di memoria. Se si infettasse, potrebbe fruire dei nuovi anticorpi monoclonali, oppure fare un terzo richiamo. Per quanto riguarda le malattie autoimmuni, i miei pazienti sono stati tutti vaccinati senza problema, sia con Pizfer, se anziani, o con AstraZeneca». Anche chi è allergico ai farmaci diffida all’idea di farsi iniettare qualcosa. Fa bene? Se il problema è un determinato principio attivo (aspirina, antibiotici, statine…), la vaccinazione di per sé non è controindicata, perché le sostanze contenute nei sieri anti-Covid sono diverse. In quelli Pfizer e Moderna, per esempio, a innescare nei primi mesi i rari eventi allergici sono state reazioni dovute ai lipidi usati nella composizione, i Peg. Allergia non comune, quasi sempre clinicamente lieve.

«Ritengo però che chi ha già avuto in passato episodi di shock anafilattico a qualche farmaco dovrebbe muoversi con cautela. Io lì sarei molto prudente» sostiene Ferro. «E se, nei vaccini con due dosi, la prima volta si sono avute reazioni rilevanti, come paresi facciali o linfonodi ingrossati, valuterei con molta attenzione se fare o no il richiamo».

In tutti i centri vaccinali, assicurano gli esperti, c’è sempre chi raccoglie l’anamnesi e valuta se tenere di più il paziente o incannularlo per un’eventuale dose di cortisone o adrenalina. Anche se, nella pratica quotidiana, tutta questa attenzione al singolo paziente non sempre viene percepita: si arriva lì, si mettono le crocette a una serie di moduli, e via. «È impossibile fare un counseling personalizzato per 40 milioni di cittadini, si bloccherebbe il sistema» ammette Maga. «È una responsabilità in carico alla persona, che deve conoscere la sua storia clinica, rapportarsi al medico di fiducia o allo specialista». Fidiamoci allora del medico di base (se riusciamo a farci dare retta), dello specialista, dell’allergologo, dell’ospedale che ci sta curando se abbiamo qualche malattia. Ma chi controlla, e come, se in quelle fiale – AstraZeneca e tutti gli altri vaccini – c’è qualcosa che non torna? Le aziende farmaceutiche, in primis, e l’impianto produttore, devono applicare una serie di controlli e regole certificate; poi ci sono le ispezioni di Aifa e Iss, anche senza preavviso, dove tutto viene revisionato. Procedura ripetuta più volte l’anno, sia prima dell’autorizzazione che dopo la commercializzazione.

Vero che le aziende sono le prime a esigere che tutto sia impeccabile (ne va della loro autorevolezza, e dei loro profitti), ma le incognite si annidano in ogni passaggio. «A diversi livelli, dall’infialamento all’etichettatura, può verificarsi qualche difetto» spiega Maga. «Etichette dove è scritto malamente il contenuto, dosaggi sbagliati, conservazione non adeguata, numeri di lotto che non corrispondono. Ma soprattutto contaminazione di sostanze chimiche o microbiche per cui, a causa di un’imperfetta sterilità, dentro la fiala cresce un batterio che poi viene iniettato. Succede di rado, la stessa ditta sa che rischi corre in termini di immagine».

Lo stop ad AstraZeneca, comunque sia, un danno enorme di credibilità lo ha già fatto sia per quanto riguarda la multinazionale anglo-svedese (a questo punto chissà se otterrà il via libera negli Usa) sia per la fiducia collettiva in quel vaccino, e nei vaccini tout court. In Italia ne aspettiamo altri: il monodose Johnson&Johnson, poi Novavax e Curevac, mentre il russo Sputnik e il cinese Sinovac attendono l’ok dell’Ema. Basteranno per l’immunità di gregge? Chissà. Gli scettici a prescindere lo saranno ancora di più. Gli indecisi, per cautela, preferiranno restare tali. Anche i pro-vax convinti qualche tentennamento, forse, lo avranno. E il virus, in mezzo a cautele, controlli, verifiche (tutto doveroso, la farmacovigilanza questo è) continuerà a fabbricare varianti con cui correre sempre più veloce. Molto più di noi.

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