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L’altro vaccino

L’altro vaccino

Dopo quasi 40 anni di ricerche, è stato messo a punto un antidoto efficace contro la malaria (che ogni anno provoca 240 milioni di contagi e 500 mila morti). Una battaglia infinita. Che, oltre ai farmaci, andrebbe combattuta anche con altre armi…


Questa è la storia di una vittoria. Racconta di un vaccino che, dopo quasi 40 anni di tentativi, è stato finalmente messo a punto contro una malattia che causa, ogni anno, circa 500 mila morti al mondo (il 94 per cento in Africa). Numeri peraltro sottostimati, visto che non tutti i decessi vengono registrati.

Questa è, però, anche la storia di una sconfitta. Perché la malaria, in questi quattro decenni in cui si è provato di tutto, pesticidi, zanzariere, vecchi e nuovi farmaci, uccide ancora. Di quelle 500 mila morti – su 240 milioni di contagi mondiali – la grandissima parte sono bambini sotto i cinque anni, spesso neonati. E mentre contro il Covid-19 l’antidoto è stato realizzato in un anno scarso (miracolo scientifico se mai ce n’è stato uno), contro la malaria solo ora si intravede una soluzione che, si spera, possa essere definitiva.

Il vaccino di cui parla l’ultimo numero di Lancet è stato creato dallo Jenner Institute di Oxford (lo stesso che ha collaborato con AstraZeneca per Vaxzevria) e ha dimostrato il 77 per cento di efficacia su 450 bambini del Burkina Faso tra i 5 e 17 mesi di età. È stato somministrato in tre dosi successive e i piccoli osservati per un anno. Una quarta dose era inoculata dopo 12 mesi dalla prima. Il risultato è stata un’elevata produzione di anticorpi contro il plasmodio.

Mai, prima d’ora, un candidato vaccino antimalarico aveva avuto una protezione così elevata. Se il successo venisse confermato in trial più ampi, sarebbe una svolta storica. Un tentativo precedente, nel 2019 (Mosquirix, della GlaxoSmithKline) si era fermato al 29-39 per cento.

Perché è così difficile trovare un «proiettile» contro questa malattia? «Della zanzara Anopheles esistono 200 specie, di cui una sessantina trasmette la malattia. Ma il Plasmodium falciparum della malaria – quello responsabile della terzana maligna e delle maggior parte dei decessi – è un protozoo molto più complesso di tanti virus, compreso il SARS-CoV-2» risponde Giorgio Palù, microbiologo, virologo e presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). «Il suo genoma contiene quasi 6 mila geni, noi ne abbiamo circa 20 mila, per rendere l’idea. Inoltre è un parassita con molte sfaccettature: da quando viene iniettato nel sangue dal morso della zanzara Anopheles ha un ciclo che attraversa più fasi, durante le quali esprime diversi antigeni. Insomma, ha una complessità genica non indifferente».

Non è l’unico caso di microbo «sfuggente», peraltro: non esiste, ancora oggi, un vaccino nemmeno per l’epatite C, per l’Hiv (sforzi vani dal 1981), per il cytomegalovirus, prima causa di morte neonatale o intrauterina, per la Tbc, con cui conviviamo da sempre.

«Non solo. Mentre nei confronti dei coronavirus abbiamo una sorta di immunità naturale capace di difenderci, dovuta alla circolazione dei comuni virus del raffreddore, questa non esiste nel caso del plasmodium della malaria» continua Palù. «Il nuovo vaccino, che si chiama R21-MM, contiene come antigene un polipeptide che viene riconosciuto da anticorpi specifici prodotti nei soggetti immunizzati. Il sistema immunitario è così in grado di riconoscere e neutralizzare il protozoo appena entra nel sangue, impedendogli di avviare il processo infettivo. In più il vaccino contiene un potente adiuvante (una sostanza naturale usata per potenziare la risposta immunitaria, ndr), la matrix M, un estratto di saponina utilizzata anche dal nostro gruppo di ricerca per approntare un vaccino contro il virus West Nile. Ora bisognerà passare alla fase 3 e fare ulteriori verifiche». Sta già iniziando, infatti, la sperimentazione su 4.800 bambini di quattro Paesi africani.

Se su numeri più estesi R21-MM si dimostrerà altrettanto potente, la battaglia secolare contro la malaria giungerebbe a un punto di svolta. Per la vittoria finale, però, ci vorrà – anche – altro. Le armi con cui attualmente la si combatte non bastano, a giudicare dai numeri mondiali di contagi e decessi mel mondo. Non a caso Bill Gates, che con la sua Bill & Melinda Gates Foundation ha finanziato la ricerca sulle malattie endemiche di questi Paesi con 50 miliardi di dollari negli ultimi vent’anni, di recente ha detto che «i progressi contro la malaria sono troppo lenti a causa della resistenza del parassita ai farmaci e ai pesticidi. Il tasso di infezione ha raggiunto non solo un plateaux, addirittura è aumentato».

I farmaci anti-malarici, del resto, sono gli stessi da tanti anni. Il chinino, la pianta dei monaci, era usata come profilassi sin dal 1800 (i marinai la masticavano per proteggersi), il derivato è l’attuale clorochina. Altro medicinale di punta è l’artemisinina, estratta anch’essa da una pianta, l’Artemisia annua: sei anni fa per la sua scoperta prese il Nobel la farmacista cinese Tu Youyou (fu la prima a isolare la sostanza nel 1972). Ma, come si diceva, il plasmodium ormai resiste spesso ai farmaci, e anche i pesticidi contro la zanzara hanno perso efficacia nel tempo.

In Italia ci siamo liberati dalla malaria endemica grazie alle bonifiche nelle tante aree paludose effettuate negli anni Trenta-Quaranta e, dopo la guerra, con il Ddt. Ma nei decenni precedenti l’infezione era così diffusa nel nostro Paese che i maggiori esperti al mondo della Anopheles mondiali erano italiani. Le nostre zanzare venivano «esportate» a Londra per essere esaminate. Lo stesso nome della malattia viene dall’italiano «mala aria». Ronald Ross, Nobel nel 1902 per avere scoperto il parassita nell’intestino dell’Anopheles, veniva qui a studiare la malattia, così come Charles Louis Alphonse Laveran, altro Nobel per la medicina nel 1907.

Oggi i casi di infezione, in Occidente, sono occasionali e legati ai viaggi. «Ma la situazione resta drammatica in Africa e nei Paesi asiatici» avverte Aldo Morrone, esperto in dermatologia infettivologica e tropicale e direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano. «I contagi sono aumentati nel 2019, anche prima dell’arrivo del Covid-19, a causa dei mutamenti climatici e soprattutto delle grandi dighe in costruzione nel continente africano».

Che c’entrano le dighe con la malaria? Parecchio, spiega Morrone: «Quella in costruzione in Etiopia sul Nilo Azzurro, per esempio, provoca un aumento di acque stagnanti, dove le zanzare prolificano sempre più, e quindi crescono i decessi». In pratica, succede questo: intorno alle dighe, nell’acqua confinata in bacini idrici e in pozze poco profonde, le larve della zanzara Anopheles trovano il loro habitat ideale e si moltiplicano. Le grandi dighe africane sono però essenziali (2 mila quelle già realizzate, oltre 200 in costruzione) per aumentare la sicurezza alimentare e produrre energia elettrica. «È uno dei grandi drammi di questi luoghi: l’alternativa fra morire di malaria o morire di fame» riflette Morrone.

Com’è la morte per malaria, che noi occidentali per fortuna non conosciamo più? «Avviene in maniera drammatica, con grande sofferenza e febbri altissime che danneggiano l’intero organismo» racconta Morrone, che spesso si reca nei Paesi dell’Africa sub-sahariana per curare le popolazioni locali. «I più piccoli sono le vittime principali, perché magari gli adulti dopo la malattia si sono ammalati, sono guariti e hanno sviluppato anticorpi, possono avere recidive ma non letali. Loro invece sono indifesi, tanto che il 70 per cento delle morti si verifica sotto i cinque anni. Alla fine è come se il bambino si addormentasse, sempre più pallido ed etereo. Ma non è sonno, si tratta di coma cerebrale».

La formula finale contro la «mala aria» passerà indubbiamente da un vaccino efficace, che sia facile da produrre, conservare e distribuire. Sull’R21-MM il mondo punta gli occhi. Non mancano, nei laboratori più avanzati, tentativi con l’ingegneria genetica e i gene-drivers: creare zanzare Ogm sterili (solo le femmine trasmettono il parassita). Anche se intervenire sui geni di miliardi e miliardi di zanzare diffuse ovunque pare un’impresa ai limiti dell’impossibile.

«Ma in attesa del vaccino e degli insetti geneticamente modificati, per eradicare la malattia ci vorrebbe una campagna massiccia di eliminazione delle pozze di acqua a cielo aperto, microambienti di caldo umido tropicale sempre più diffusi» avverte Morone. «E dove non si annida soltanto la malaria. La più alta incidenza mondiale di decessi infantili da rotavirus, causa di una grave gastroenterite, avviene perché i bambini bevono quelle acque contaminate, si ammalano e muoiono».

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