Alcune sostanze contenute negli alimenti sono in grado di aumentare l’efficacia delle terapie anti-cancro, o di rendere le cellule maligne più vulnerabili. E in questo innovativo filone di ricerche, le scoperte si moltiplicano. Anche in Italia.
Quando ci ammaliamo di cancro, prevale un senso d’impotenza. Ci affidiamo alle cure, sperando per il meglio, con la sensazione che poco o nulla però dipenda da noi. Ora, da un nuovo filone di ricerca, emerge che particolari diete o sostanze contenute nei cibi possono aumentare il potere dei farmaci antitumorali. Al cuore di queste indagini, la connessione fra dieta e cancro, e il modo in cui determinati nutritivi possono influire sull’efficacia delle cure.
Qualche esempio? Nei laboratori della Weill Cornell Medicine di New York, il team di Lewis Cantley, come racconta Science, ha dimostrato su modelli animali come le diete che sopprimono il livello di insulina migliorano la risposta dell’organismo ad alcune terapie antitumorali. «In particolare, nel caso del cancro a seno e utero, potenziano l’azione dei farmaci che prendono di mira l’enzima PI 3-chinasi, prodotto dal gene PIK3CA che in questi tumori è spesso mutato» spiega il ricercatore a Panorama.
La sua équipe ha sottoposto un gruppo di topi a una dieta chetogenica, che riduce i carboidrati, aumentando di contro proteine e grassi. «Le donne con cancro al seno HER positivo e HER2 negativo che, in più, hanno la mutazione di quel gene vengono oggi curate con il principio attivo Alpelisib, approvato da poco» dice Cantley. «Sebbene questo farmaco prolunghi la sopravvivenza, fa aumentare il glucosio e induce resistenza all’insulina».
E proprio l’aumento dell’insulina può renderlo meno efficace. «Tuttavia, abbiamo scoperto che le diete a basso contenuto di carboidrati e zuccheri riescono a mantenere bassi i livelli di glucosio e insulina durante il trattamento con Alpelisib e altri medicinali. Non solo: li rendono molto più efficaci nel prevenire lo sviluppo del cancro». Dal momento che in numerosi tumori l’eccesso di insulina promuove la crescita delle cellule maligne, «è probabile che mantenerne bassi i livelli serva in tutte le terapie oncologiche» conclude Cantley.
Tra le novità sul rapporto dieta-cancro c’è poi l’eliminazione di alcuni aminoacidi. Karen Vousden e Oliver Maddocks del Francis Crick Institute di Londra sono incappati in questa scoperta mentre studiavano un gene «famoso» in medicina, il P53, un oncoprotettore: ossia induce le cellule con Dna danneggiato ad autodistruggersi, impedendo loro di diventare maligne. Se però il P53 è mutato, e lo è in una grande percentuale di tumori, favorisce lo sviluppo del cancro.
Nei loro esperimenti, Vousden e Maddocks hanno visto che molti tipi di cellule maligne – di tumori intestinali e linfomi – crescevano più lentamente se private di due aminoacidi, serina e glicina; ed eliminando il gene P53 l’effetto anti-cancro ne risultava potenziato. Per la cronaca, di serina sono ricchi alimenti come germogli di soia, frutta secca, uova, carne ovina, mentre la glicina è contenuta in carne, soia, merluzzo sotto sale, alga spirulina. Il prossimo passo sarà sperimentare una dieta priva di questi elementi su un numero ampio di pazienti oncologici.
Risultati simili sono emersi per altri aminoacidi: ridurre la metionina (si trova in carni, uova, latticini) amplifica l’effetto di radiazioni e chemioterapia nei topi con cancro al colon e sarcomi. E la rimozione dell’asparagina ha frenato la diffusione del cancro al seno, suggerendo che un’alimentazione che ne è priva potrebbe migliorare i trattamenti farmacologici: nei topi, eliminare l’aspargina interrompe i cicli metabolici delle cellule tumorali.
Anche le diete «mima-digiuno» sembrano potenziare i risultati dei trattamenti chemioterapici. Un pioniere di questi studi è il biochimico Valter Longo della University of Southern California, che collabora con la Fondazione italiana dell’Istituto di oncologia molecolare (Ifom) per la ricerca sul cancro. I test condotti a Los Angeles e Milano su tessuti sani e cancerosi indicano che ridurre determinati nutrienti protegge le cellule normali dalla tossicità dei farmaci chemioterapici e rende quelle tumorali più vulnerabili. «Abbiamo evidenziato che il digiuno protegge gli animali dagli effetti della chemioterapia, mentre rende le cellule maligne, nel tumore alla mammella, melanoma e glioma, più sensibili alla chemioterapia» ha spiegato Longo. «Ora abbiamo dimostrato che la dieta mima-digiuno potenzia l’azione di chemio, radioterapia, terapia ormonale e dei farmaci conosciuti come inibitori delle chinasi».
«Abbiamo collaborato con Longo, il nostro approccio si basa su restrizione calorica severa in associazione al trattamento medico» dice Filippo De Braud, professore ordinario all’Università di Milano e direttore del Dipartimento e della Divisione di Oncologia medica all’Istituto nazionale dei tumori. «Non si può sostituire una terapia oncologia attiva con una dieta, che da sola non guarisce, ma si può integrare un trattamento medico con interventi metabolici sulla persona».
De Braud ha promosso uno studio su cento pazienti per capire se la dieta mima-digiuno – sotto le 500 calorie per cinque giorni – potesse essere tollerata in concomitanza con la terapia. «Il punto di partenza è stato considerare la nutrizione come un farmaco. E abbiamo notato conseguenze positive anche sul sistema immunitario». Il suo team ha attivato altri due studi: nel primo si propone alle pazienti con cancro al seno due cicli di dieta mima-digiuno prima dell’intervento chirurgico, per studiare quanto il microambiente tumorale cambi con uno shock metabolico intenso. Il secondo test, su donne con malattia più aggressiva (candidate a un trattamento chemioterapico preoperatorio), abbina dieta e metformina, un farmaco antidiabetico. «Questo studio, in corso da luglio scorso su 17 pazienti, ha già dato risultati preliminari promettenti».
Anche il chirurgo Corrado Tinterri, direttore dell’Unità Senologia all’Humanitas Cancer Center, è a favore di ulteriori studi clinici su una dieta mima digiuno unita alla terapia con estrogeni nel carcinoma mammario positivo per ricettori ormonali. «In queste pazienti, i cicli di una dieta simile causano cambiamenti metabolici analoghi a quelli osservati nei topi, inclusi livelli ridotti di ormoni quali insulina, leptina e IGF1. Gli ultimi due rimangono bassi per periodi prolungati».
«La dieta chetogenica, la mima-digiuno e quella che elimina determinati aminoacidi sono strategie che hanno una convincente motivazione biologica e potrebbero essere impiegate in particolari situazioni cliniche e in diversi tumori» afferma l’oncologo Marcello Tiseo, direttore della Scuola di specializzazione in Oncologia medica all’Università di Parma e responsabile del DH Oncologico dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma. «Dati su modelli cellulari e animali convalidano l’ipotesi biologica della dieta chetogenica, per esempio, in neoplasie con alterazioni del gene PI3K, così come in corso di immunoterapia. Ma servono studi clinici ampi su pazienti ed evidenze più chiare prima di poter trasferire questi metodi nella pratica clinica quotidiana».
Attenzione, avverte De Braud: «Si tratta di restrizioni caloriche che vengono utilizzate come farmaci, non da suggerire come stile di vita. Molta gente specula su questo. Siamo l’unico centro al mondo che ha almeno cinque programmi clinici attivi sui pazienti. Ci vuole una buona organizzazione perché non si può pensare di improvvisare. Il malato va seguito nel percorso alimentare da specialisti. Su questa base, credo che ci sarà nei prossimi cinque anni un cambiamento significativo per la cura dei tumori».
A cambiare, in meglio, il destino dei malati oncologici è un altro filone emergente che lega il microbiota, ossia l’insieme dei batteri che vivono nell’intestino, all’efficacia di alcuni farmaci. Sempre all’Istituto dei Tumori di Milano, l’équipe diretta da Elda Tagliabue (con uno studio finanziato da Airc) ha dimostrato che, nel tumore al seno, l’azione di un farmaco biologico, l’anticorpo monoclonale trastuzumab (il trattamento elettivo per le donne con cancro Her2 positivo) è potenziato dalla presenza di specifici batteri che «aiutano» il sistema immunitario.
Negli esperimenti, spiega Tagliabue, «si è visto che se la flora intestinale perde il suo equilibrio ottimale, questo farmaco funziona meno nell’inibire la crescita del tumore. Mentre i batteri associati all’efficacia dell’anticorpo sono anche quelli che contraddistinguono le donne che rispondono meglio a questo trattamento».
Risultati importanti, che il team di Tagliabue conta ora di validare su un altro campione di pazienti, anche per stabilire con precisione quali sono i batteri da utilizzare nell’ambito della terapia. «In generale, sappiamo che sono quelli associati a un’alimentazione ricca di fibre. In esperimenti su animali, nel frattempo, stiamo somministrando fibre nella dieta o come prebiotici per aumentare l’efficacia dei trattamenti». L’idea che emerge da tutti questi studi su nutrizione e terapie anti-cancro è quella di combinarle per migliorare la risposta alle cure e la prognosi della malattia. Guadagnando anni di vita o avvicinando la guarigione. Sarà, nel prossimo futuro, una potenziale svolta in campo oncologico. «Una nuova era» conclude Science, «in cui l’alimentazione sarà parte integrante della terapia».